Come superare la mistica del precariato giovanile

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Come superare la mistica del precariato giovanile

07 Settembre 2012

Mi ha sempre colpito una frase di Paul Nizan che mi capitò di leggere mentre frequentavo l’Università nei «formidabili» primi anni Sessanta: «Avevo vent’anni. Non permetterò mai a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Anche adesso che ai vent’anni di allora ho aggiunto un intero mezzo secolo e che mi vien fatto sempre più spesso di rimettermi al Signore («Tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli»), non provo alcuna invidia per i giovani, perché la loro vita è ancora alla ricerca di «quel vago avvenir che in mente avevo», tanto da soffrire di una vera e propria precarietà esistenziale, ben più profonda di quella che attiene al solo lavoro e ben più complessa di quella che, sempre negli anni Sessanta, scorreva copiosa nei film di Michelangelo Antonioni, senza che nessuno si alzasse dalla platea dei cineforum a pronunciare la fatidica frase con cui il ragionier Ugo Fantozzi liquidava «La corazzata Potemkin».

Con le prospettive che si profilano all’orizzonte sono contento di essere prossimo a varcare la soglia della vecchiaia e sereno nell’assistere alla scomparsa di coloro che mi furono amici come un presagio di quanto potrà succedere a me fra poco. Non mi piace più il mondo in cui vivo e soffro nel vedere che i miei simili, soprattutto se giovani (ma vi sono anche tanti anziani invecchiati male) non vogliono rassegnarsi ad accettare che nulla sarà più come prima, ma preferiscono insistere nell’affannosa ricerca dei «capri espiatori» a cui attribuire la responsabilità sia delle rinunce che devono compiere sia dei cambiamenti negli stili di vita che sono costretti a subire, senza rendersi conto della mancanza di alternative o quanto meno senza adattarsi ad accettare tale realtà.

Ormai è aperta una lotta di tutti contro tutti, nessuno si sforza più di ragionare con un minimo di senso comune. C’è solo una gran voglia di rovesciare il banco, di buttare tutto all’aria: l’Unione Europea, la moneta unica, la classe politica, a cui viene attribuita la responsabilità di una crisi che impone ciò che nessuno è disposto ad accettare: cambiare modello di vita. È significativa, ad esempio, la simpatia che viene rivolta alla Grecia e alla sua popolazione. Sono stati sicuramente i Governi a truccare i conti, a mettere in difficoltà la tenuta dell’Unione. Ma lo hanno fatto in nome di quella ricerca del consenso a tutti i costi che è la vera degenerazione della politica. Gli organismi della UE hanno a loro carico una enorme responsabilità, una vera e propria culpa in vigilando. Perché erano evidenti i limiti della Grecia: una società sostenuta dalla spesa pubblica (un numero pletorico di pubblici dipendenti, un sistema pensionistico insostenibile) con un’economia privata di modeste dimensioni e praticamente operante nel sommerso. Altro che affamare la Grecia! Tanti nostri concittadini pretenderebbero – in nome di una solidarietà europea che loro non praticherebbero mai – che l’operaio tedesco sacrificasse i suoi risparmi per consentire all’impiegato statale greco di continuare a fare la bella vita.

Ciò premesso (ma su questi argomenti torneremo) quando si scrive un libro è sempre buona norma dare conto dei motivi che hanno indotto a farlo. L’idea del saggio è nata diversi mesi or sono durante un dibattito organizzato dal Consiglio comunale di Anzola Emilia, una cittadina della cintura industriale bolognese (Bologna è la mia città), dedicato al problema dell’occupazione giovanile e quindi aperto ai rappresentanti di forum (adesso si chiamano così) e di associazioni che assumevano la «questione giovanile» come ragione sociale.

Ad Anzola, ero stato invitato dal gruppo consigliare di minoranza (la maggioranza che amministrava il Comune era, ovviamente, di sinistra). Avevo aderito all’iniziativa perché sono un combattente (in verità, somiglio di più ad un ex pugile «suonato come un tamburo» che comincia a saltellare, vittima di un riflesso pavloviano, sul tappeto di casa come se fosse un ring, appena avverte un suono che gli ricorda il gong anche se è soltanto il rumore di un cucchiaino in un tazza) e perché, in quanto parlamentare, avvertivo il dovere – secondo il principio del cuius commoda, eius incommoda – di dare un contributo ai consiglieri comunali vicini alle mie posizioni politiche. Era mio interlocutore/avversario, per il PD, Luigi Mariucci, un giuslavorista allievo, come me, di Federico Mancini. Ça va sans dire, io ero il «saracino della giostra» sottoposto a tutte le critiche possibili solo perché appartenente a una maggioranza (allora di centro-destra) rea di ogni nefandezza, responsabile di tutti i guai delle giovani generazioni, nonché sostenitore di un governo accusato di smantellare, con metodica determinazione, i sacrosanti diritti dei lavoratori. Anche in quella circostanza i giovani presenti (non molti in verità) intervenivano brandendo, alla stregua di una clava, il loro caso come se toccasse all’uomo politico governativo trovare una risposta ai loro problemi, dal momento che nessuno dubitava delle terapie del prof. Mariucci e della sua parte politica. Rammento in particolare l’intervento di una ragazza in cui era sostanzialmente racchiuso tutto il senso esemplare degli argomenti che cercherò di mettere in fila in questo saggio. «Sono laureata in scienze politiche – disse – ma l’unico lavoro che ho trovato è a part time; mi rende poco più di 200 euro mensili. Mio cugino – la voce assunse il tono della indignazione – è un perito industriale ed è occupato, qui in città, in una fabbrica con un contratto a tempo indeterminato – fu particolare la sottolineatura di questo aspetto – e percepisce 1.500 euro al mese [evidentemente al netto, nda]». Visto che si aspettava da parte mia l’obiezione fin troppo ovvia («allora il lavoro c’è»), aggiunse subito: «Mia madre è un’operaia e mi ha detto che non consentirà mai che io faccia una vita come la sua».

Ho molto riflettuto sull’incontro di quella sera in cui è agevole riscontrare le principali caratteristiche della questione giovanile: un titolo di studio con sbocchi professionali i ncerti e problematici nel mercato del lavoro si confrontava, a distanza di qualche centinaio di metri, con un altro – sulla carta di livello inferiore – assai più richiesto; alle spalle una famiglia che riusciva, per la prima volta, a portare alla laurea una propria componente e che era disposta a compiere ogni tipo di sacrificio pur di vederne realizzate le aspettative nell’attività professionale.

Lo confermano i Rapporti del Consorzio AlmaLaurea: almeno il 75% dei nuovi laureati proviene da famiglie in cui nessuno dei genitori ha acquisito tale titolo di studio (il cui valore legale la maggioranza degli italiani non è intenzionata ad abolire stando al sondaggio compiuto dal ministro dell’Istruzione). A sua volta, l’ISTAT certifica che – tra le tante diseguaglianze – solo il 12,5% dei figli della classe operaia raggiunge la laurea contro più del 40% dei figli della borghesia. Così, è la famiglia prima ancora che il diretto interessato a voler garantire, tra la sicurezza delle mura domestiche, la possibilità di attendere l’occasione propizia.

Una volta, a un dibattito televisivo, una ragazza mi apostrofò dicendo che lei non si era laureata per accontentarsi dei posti che le venivano offerti e che non corrispondevano alle sue aspettative. Purtroppo, per lei, come per la ragazza di Anzola, non esiste un’autorità in grado di far incontrare l’offerta con la domanda di lavoro, addirittura a livello dei casi personali. Ci sono procedure, strumenti e istituzioni che dovrebbero facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta. Sappiamo che in Italia funzionano poco e male e che anche i casi di «buone pratiche» vengono ignorati (a bella posta?), perché, alla base delle iniziative di successo, sta sempre un particolare impegno di carattere personale. E in pochi sono portati a chiedersi se hanno fatto tutto il possibile per realizzare le proprie aspirazioni e quanta parte di responsabilità ciascuno di noi porta nel dare un profilo accettabile al proprio destino. Come è stato scritto: «Il vero esilio dei figli di Israele in Egitto fu che essi avevano imparato a sopportarlo». E proprio perché abbiamo voluto prendere spunto da pezzi di vita reale sarà bene che io ricordi un’esperienza molto più recente che mi è accaduta, quando ormai ero vicino alla fine di questo saggio e prossimo a chiudere un’esperienza parlamentare iniziata appena dopo l’incontro ravvicinato ad Anzola Emilia.

Minerbio è una ridente cittadina della pianura bolognese. Mi sono trovato colà in occasione di un incontro domenicale, in verità assai poco partecipato, sui temi del lavoro e segnatamente del relativo disegno di legge Fornero. Durante il dibattito era intervenuto un «cittadino minerbiese» (così si definì) di 46 anni, in cassa integrazione e molto preoccupato di non trovare più lavoro. Prima di chiudere i battenti, si avvicinò al tavolo della presidenza e cominciò a parlare un anziano signore che si qualificò come il fornaio del paese, titolare di un’azienda fondata nel lontano 1917, ma prossima alla chiusura perché alle figlie non interessava continuare l’attività del padre e soprattutto perché non si trovava manodopera, neppure tra gli immigrati, nonostante il discreto trattamento economico. Ovviamente, capisco bene che offrire e domandare lavoro non è un’operazione semplice come fare due più due; ma è singolare che, in una mattinata di tarda primavera, in una comunità di qualche migliaio di anime, si siano trovati, a pochi metri uno dall’altro, ambedue residenti a Minerbio, un lavoratore alla ricerca di un impiego e un datore costretto a chiudere bottega perché nessuno era disposto ad accettare il lavoro che offriva.

L’ultimo cammeo è una foto apparsa recentemente su un quotidiano nazionale. Vi sono ripresi, all’interno di un Centro per l’impiego, un ragazzo-utente e il ministro Elsa Fornero. Il primo rimane maleducatamente seduto nonostante che quell’esile signora, che potrebbe essergli madre (Fornero, appunto) gli stia davanti in piedi, rivolgendogli la parola. Un articolo, nella medesima pagina, dà conto del colloquio tra i due e spiega che il giovane si era recato lì per trovare un lavoro, che gliene avevano offerto uno in cui era richiesto di prestare la propria opera in turni notturni, ma che lui aveva rifiutato perché, a suo avviso, la notte è fatta per dormire.