Come un mullah libanese ha trovato la felicità in Paraguay

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Come un mullah libanese ha trovato la felicità in Paraguay

21 Novembre 2009

Verso la fine del 2007, lo sceicco Hassan al-Burji arrivò a Ciudad del Este, in Paraguay, per diventare il primo mullah della Moschea del Profeta Muhammad. Noto al suo gregge di commercianti sciiti come “el Padre”, Hassan aveva passato tutti i suoi 28 anni di vita in Libano, studiando in un convento iraniano. Non era mai stato prima in Sudamerica.

Quando l’ho incontrato subito dopo il suo arrivo, sembrava ancora uno di quei novizi dagli occhi sgranati appena iniziati alla scuola Vassar, e appariva alquanto insicuro su cosa preferire, se i giardini di Qom o il frastuono di Ciudad del Este. Del resto, il Paraguay per lui era stata una mezza imposizione: l’ufficio del Grande Ayatollah Muhammed Hussein, il leader spirituale degli Hezbollah, gli aveva chiesto di scegliere tra il paese sudamericano e la Costa d’Avorio; non trovando attraente nessuna delle due, aveva scelto l’opzione più impegnativa. La città, allora, era ancor più malfamata di quanto sia adesso: un paradiso per i contrabbandieri, il classico posto di frontiera dove è facile smerciare ogni sorta di merce, armi incluse, attraverso i corsi d’acqua che separano Paraguay da Argentina e Brasile. Un luogo lontano dall’ideale, per un mullah di biblioteca.

“La gente qui pensa solo ai soldi, non all’Islam”, si lamentava. Sebbene gli sciiti del Sudamerica siano, finanziariamente parlando, tra i più grandi sostenitori di Hamas al di fuori del Medio Oriente, Hassan riteneva che i suoi correligionari fossero troppo presi dall’attività di vendere cellulari, e troppo poco devoti a Dio e alla preghiera. Vedevo le folta sopracciglia di Hassan incresparsi dal dispiacere quando mi diceva quanto gli mancasse il suo amato maestro, l’esiliato marajah saudita Sayyid Munir al-Sayyid ’Adnan al-Khabaz, e mentalmente gli davo non più di sei mesi, prima che se ne tornasse in Iran.

Non avevo previsto l’influenza suina, la crisi economica e neanche che “el Padre” scoprisse il cibo cinese. Diciotto mesi dopo quel nostro primo incontro, tornai a visitarlo. Fui portato al piano superiore del suo appartamento, ritrovandomi in mezzo a una famiglia libanese sua vicina. Stavano tutti guardando in tv “L’uomo più forte del mondo”, trasmesso da Aanheim e doppiato in spagnolo. Nel momento in cui i concorrenti iniziavano a salire sulle Volkswagen, “el Padre” entrò, e la famiglia si sintonizzò sulla Lebanese Broadcasting Corporation.

Mi salutò con calore e mi disse che la vita è bella: nel febbraio del 2008 era stato raggiunto dalla moglie e dai due figli e quando, due mesi più tardi, l’economia cominciò a crollare, per lui le cose iniziarono a decollare. I libanesi sulla “Tripla frontiera”, dove si incontrano Paraguay, Argentina e Brasile, facevano la giornata con commerci illegali, e quando la domanda è calata, così sono calate le loro entrate. Alcuni se ne andarono a San Paolo, ma quelli che restarono avevano perduto i loro affari. “Quando un uomo è in difficoltà, si rivolge a Dio – mi disse Hassan – e adesso per loro le difficoltà sono molte”.

Per di più, Hassan si disimpegnò bene. Iniziò a pubblicare una rivista, l’Eco de la Mesquita, ossia l’Eco della Moschea, i cui tratti salienti sono le fotografie dell’Ayatollah iraniano Ali Khamenei e fumetti che illustrano la vita dei profeti. Inoltre trovò un ristorante cinese che gli preparava gustosi piatti di pesce, e la sua famiglia iniziò ad apprezzare le convenienze terrene di vivere in una città commerciale, come ad esempio i distributori automatici funzionanti 24 ore al giorno.

“A loro piace di più il Paraguay dell’Iran”, anche più del Libano, mi disse. “Mi piacerebbe vivere qui più a lungo. Qui posso leggere e scrivere, prima non avevo alcun tempo da dedicare a me stesso”. Il Paraguay era diventato casa sua. “Adesso ho qui la mia famiglia, e un sacco di cose da fare. Sono tornato in Libano per un periodo di quindici giorni, e mi sono sentito uno straniero”. Aveva la pace, abbastanza spazio per leggere i suoi testi di religione e ascoltare i suoi due bambini – Sara, 7 anni, e Ja’afar, 5 – cominciare a parlare in spagnolo.

Il giorno seguente, assistetti alle preghiere e al suo sermone. I segni della devozione libanese verso il commercio restavano. Quando i fedeli pregavano, si vuotavano scrupolosamente le tasche dei soldi e dei cellulari poggiandoli per terra, di fronte a loro, e sembrava quasi che stessero pregando contemporaneamente Allah e Nokia. I loro ranghi sembravano più radi, rispetto alla mia visita precedente.

Hassan appariva più sereno, più a suo agio nell’officiare la funzione religiosa. Lesse diverse analisi di una sura del Corano intitolata Al Zumar, in cui si racconta dello squillo di tromba che annuncerà il Giorno del Giudizio, e dei lussuosi palazzi in riva a un fiume destinati ai fedeli una volta in Paradiso. Dopo un anno e mezzo, sarebbe stato assai difficile immaginare questi commercianti affascinati dai più minuti dettagli interpretativi di un testo sacro. Ma quel giorno, vidi una platea rapita di musulmani, e un mullah felicissimo.

© The Atlantic
Traduzione Enrico De Simone