
Competitività sociale: uno Stato più amico, una Società più solidale (di P. Romani)

21 Giugno 2021
di Paolo Romani
Rendere l’Italia un Paese competitivo dal punto di vista sociale: questo deve essere uno degli obiettivi del ridisegno del sistema socio-economico consentito dal NextGenIta. Detto in parole povere? Bisogna creare le condizioni per cui si possa vivere bene, costruire il proprio futuro, essere liberi di scegliere il proprio stile di vita. L’Italia deve essere competitiva rispetto agli altri paesi non solo da un punto di vista economico ma anche sociale, deve essere un paese dove si vuole vivere, non da cui si vuole scappare o dove ci si senta ingabbiati o limitati. Pensiamo in particolare ai giovani e alle opportunità che possiamo offrire loro. Ma attenzione, lo scopo non è semplicemente evitare la fuga di cervelli e fare in modo che i giovani rimangano in Italia: il vero obiettivo è disegnare un Paese che sia anche attrattivo, in cui tornare dopo aver fatto un’esperienza all’estero o in cui decidere di rimanere se si è arrivati solo per un breve periodo. Perché è dal confronto, dallo scambio e dalla commistione di esperienze, modi di pensare, metodi di lavoro che una società si arricchisce, anche in termini di produttività.
Non stiamo parlando di assistenzialismo, anzi. La capacità di un sistema di attivare l’iniziativa, e anche l’ambizione personale, è la chiave per una società inclusiva, più produttiva e più ricca: in sintesi, dove si vive meglio. È dunque necessario anche rivedere tutto il complesso delle tax expenditures, spesso solo ritoccato alla ricerca di risorse, e soprattutto superare la logica di sostituzione del lavoro, in un momento come questo in cui si può ripartire. Il reddito di cittadinanza, per fare un esempio preciso, ha avuto un’utilità marginale solo e soltanto nei momenti più critici della pandemia, laddove sarebbe stato più opportuno attivare misure adeguate per il sostegno di coloro che si trovavano in difficoltà. Non può essere invece una misura strutturale, per due ordini di motivi: il primo, la mancanza di efficacia, se ne avesse avuta non avremmo visto aumentare in maniera drammatica i poveri assoluti, 1 milione in più del 2019, 5,6 milioni in totale, il 9,4% contro 7,7% del 2019; secondo, perché spesso induce al lavoro sommerso, per non perdere il privilegio, con un ulteriore danno per le casse dello Stato e per la collettività. Bene sarebbe disegnare un nuovo sistema, sull’esempio del “Service à la Personne” francese, dove il supporto alle famiglie disagiate viene fornito attraverso la possibilità di ‘acquistare’ il servizio richiesto con una sorta di ticket/voucher erogato dallo Stato. Tale sistema ha prima di tutto il vantaggio della certezza di destinazione dei sussidi. Inoltre, attraverso la registrazione dei fornitori delle prestazioni e la fatturazione da parte dell’organismo deputato, si attiverebbe un circolo virtuoso di emersione del lavoro sommerso per tutte quelle categorie che forniscono servizi di assistenza alla persona e alla famiglia. Se immaginassimo di allargare il sistema anche ai privati, consentendo alle aziende di offrire ai propri lavoratori benefit sotto forma degli stessi ticket/voucher, la platea della domanda si allargherebbe e di conseguenza l’offerta. Stiamo parlando di un sistema semplificato, anche fiscalmente, rispetto alla partita iva, accessibile ai più giovani, a coloro che cercano lavoro dopo la maternità o in età avanzata, a tutti coloro che oggi sono tagliati fuori dal mondo del lavoro, ma che avrebbero tutta la possibilità di contribuire alla crescita del Paese e di aumentare il proprio benessere economico.
Questo non esimerebbe da una radicale riforma del sistema della formazione e del lavoro in senso ‘capacitante’: è necessario offrire ai giovani le competenze per entrare nel mondo del lavoro prima, rendersi indipendenti, intraprendere la carriera che più si confà alle loro attitudini ed essere liberi anche di costruire la propria famiglia. Questa è la prima vera misura contro il decremento della natalità e la crisi demografica del nostro Paese.
E come creare le condizioni per rendere un Paese competitivo socialmente? Le direttrici di intervento sono tre, quella strutturale, regolamentare e quella dei diritti civili. Dal punto di vista strutturale il gap fra l’Italia e i paesi con cui siamo chiamati a competere è drammatico: dalle infrastrutture fisiche a quelle immateriali, dalla logistica delle merci alla mobilità individuale. Problemi strutturali su cui pure il PNRR si concentra, ma su cui il processo deve svilupparsi in maniera intelligente ed adeguata all’organizzazione del territorio e al rispetto dell’ambiente. Il forte impulso alla mobilità elettrica, per esempio, vede esclusa la gran parte dei pendolari delle grandi città che, a causa delle grandi distanze e della durata della ricarica di una batteria di auto elettrica, non sarebbero avvantaggiati nemmeno da una rete di distribuzione ben ramificata; inoltre, parallelamente alla sostituzione del parco auto da combustibili fossili è necessario rafforzare il sistema di smaltimento delle batterie, altrimenti si rischia un impatto ambientale insostenibile; ultima considerazione, valida questa per tutta la transizione ecologica, prevede la necessità di guardare già da ora ad un approvvigionamento diversificato delle materie prime necessarie ed al riciclo e al recupero delle stesse dalla componentistica. Ignorare questo passaggio renderebbe la spinta alla sostenibilità una ineluttabile corsa verso l’estrema dipendenza dall’estero, in particolare dalla Cina, e, per paradosso, verso l’insostenibilità ambientale. Alcune delle materie prime di cui stiamo parlando, litio, tungsteno, cobalto, terre rare, sono ovviamente frutto di estrazioni minerarie, condotte in paesi con regole molto meno stringenti delle nostre sia in termini di inquinamento sia in termini di impiego della manodopera. Se una cosa ci insegna la crisi climatica è che il pianeta è uno e uno soltanto.
E ancora il forte impulso alla digitalizzazione deve essere guidato dal DIRITTO UNIVERSALE ALLA CONNESSIONE; non possiamo trasferire sempre più servizi sul digitale e ragionare ancora in termini di aree a fallimento di mercato nello sviluppo dell’infrastruttura di rete. Parallelamente dovrebbe attivarsi anche l’offerta di competenze digitali, sin dall’infanzia, per coloro che sono ancora nel percorso formativo, ma anche a coloro che sono chiamati ad adeguarsi all’innovazione, che siano ancora all’interno del mercato del lavoro o meno. Escludere intere fasce di popolazione dalla rivoluzione digitale e preparare le nuove generazioni solo ad usufruire dei servizi ma non a partecipare da protagonisti allo sviluppo, vuole dire creare una società non inclusiva e destinata ad una crescita lenta.
Dal punto di vista regolamentare, per aumentare la competitività sociale del Paese è necessario intervenire con riforme, alcune delle quali già in cantiere, come quelle della giustizia e della semplificazione, altre ancora da definire, come quella del fisco. Nel complesso è fondamentale elaborare un sistema più semplice, in grado di rendere il rapporto fra Stato e cittadini meno faticoso e più trasparente. E se questa direzione sembra essere intrapresa, grazie sempre al Recovery Plan, sarebbe opportuno allargare lo sguardo alla ‘burocrazia privata’, quella dei servizi erogati da grandi aziende, che sempre di più grava sui cittadini. Chi di noi non si è perso nei lunghi corridoi digitali e non delle ‘assistenze clienti’? Una legislazione più stringente che limitasse complicazioni e ostacoli agevolerebbe di gran lunga la quotidianità dei cittadini.
E veniamo all’ultimo aspetto, quello dei diritti civili. Per non entrare in un dibattito che contrapponga in maniera irreversibile conservatori e liberali, entrambe sensibilità che dovrebbero tornare a guardare al centro del centrodestra come alla propria casa, per sviluppare il ragionamento possiamo avvalerci delle esperienze del welfare aziendale. Siamo abituati a tradurre welfare come termine sostitutivo di sistema pensionistico e assistenziale, ma ragioniamo sul significato letterale del termine: benessere. In settori altamente specializzati dell’industria, in cui è forte la competizione sull’acquisizione delle risorse umane più capaci, il welfare aziendale raggiunge livelli di attenzione alle esigenze dei lavoratori impossibili da individuare anche nello Stato più avanzato. Anche senza raggiungere questi estremi, fa parte della politica aziendale di alcuni grandi gruppi multinazionali offrire ai propri collaboratori soluzioni di conciliazione lavoro-famiglia non previsti nei paesi in cui operano. Pensiamo, per esempio, ai congedi parentali anche per le coppie di fatto. Queste opportunità sono offerte da gruppi operanti nel nostro Paese come in Africa, America o nel resto d’Europa. Non intaccano i valori, non impongono un cambiamento culturale: offrono però un’opportunità di scelta. E spesso, laddove la competizione fra ‘teste’ è forte, vincono grazie ad esse.
Proviamo ora a traslare questo ragionamento sugli Stati e sul livello di benessere, non solo economico, che può offrire ai propri cittadini.
Nel ragionare in termini di competitività sociale, a mio avviso, è dunque necessario abbandonare il timore che un’apertura a nuovi stili di vita possa intaccare i valori di una società. Lasciare libera scelta di costruzione del proprio futuro e della propria vita, anche privata, è un valore fondante di uno Stato liberale. Prescindere da questo principio vuol dire sì indebolirsi rispetto a visioni fondamentaliste della realtà, in un senso o nell’altro. La capacità di aprire alle nuove prospettive, senza intaccare le tradizioni culturali e la possibilità di perseguirle, dovrebbe invece essere l’elemento di contrasto forte ai sistemi rigidi e alle visioni oltranziste.