
Con Erdogan la Turchia rischia una rivoluzione islamica

23 Aprile 2008
Pochissimi politici statunitensi hanno
sentito parlare di Fethullah Gülen, forse il più importante teologo e scienziato
politico della Turchia. Esule per scelta da più di dieci anni, Gülen conduce
un’esistenza riservata a pochi chilometri da Filadelfia, Pennsylvania.
Tuttavia, entro pochi mesi il suo nome potrebbe divenire di dominio pubblico
negli Stati Uniti, alla stregua di quello dell’Ayatollah Khomeini – un uomo
sconosciuto alla maggioranza degli americani sino al momento del suo ritorno
trionfale in Iran quasi trent’anni orsono.
D’altronde, molti accademici e giornalisti
approvano le idee di Gülen e lodano il suo pensiero che unisce Islam e
tolleranza in un’ottica europeista. I suoi sostenitori lo definiscono un “progressista”.
Nel 2003, l’Università del Texas lo premiò come “eroe pacifico”, insieme a nomi
illustri come Martin Luther King Jr., il Mahatma Gandhi e il Dalai Lama. Lo
scorso ottobre, la Camera dei Lords ed altri diplomatici britannici lo
accolsero calorosamente ad un’importante conferenza a Londra. Nel corso di
quest’anno, John Esposito della Georgetown University presiederà una conferenza
dedicata al suo movimento. Così come nel 2001, Esposito contribuirà a sostenere
il Rumi Forum, l’organizzazione della quale Gülen è presidente onorario.
Il movimento di Gülen controlla gli enti di
beneficenza, le agenzie immobiliari, le imprese e più di un migliaio di scuole
in ambito internazionale. Secondo alcune stime, si tratta di un giro d’affari
di alcuni miliardi di dollari. Il movimento in patria vanta diritti su alcune università,
sindacati, lobby, gruppi studenteschi, emittenti televisive e radiofoniche, e
sul quotidiano Zaman. Le cifre ufficiali in Turchia parlano di più di un
milione di seguaci di Gülen all’interno del paese; i sostenitori del movimento
replicano che si tratta soltanto della punta dell’iceberg. Al momento gli
uomini di Gülen predominano all’interno della polizia e fomentano le divisioni
nel Ministero degli Interni. Sotto la protezione del Primo Ministro Recep
Tayyip Erdogan, uno dei più noti simpatizzanti di Gülen, decine di migliaia di
sostenitori di quest’uomo hanno avuto accesso alla pubblica amministrazione
turca.
Mentre i suoi seguaci curano attentamente
la sua immagine in Occidente, in Turchia Gülen rimane pur sempre una figura
controversa. Secondo Cumhuriyet, storico quotidiano di centrosinistra – una
sorta di New York Times degli anni Settanta, ma turco – il Consiglio di
Sicurezza Nazionale di Izmir ha condannato Gülen per aver “tentato di distruggere l’apparato statale ed
aver voluto impiantare al suo posto un sistema basato sulla religione”; in
seguito è stato però graziato, e per questo non ha mai dovuto scontare una
condanna in carcere. Nel 1986, l’esercito turco – guardiano costituzionale
della laicità dello Stato – ha disposto l’allontanamento di una cellula di
seguaci di Gülen dall’Accademia Militare; l’esercito è in seguito intervenuto
regolarmente nei confronti di altre supposte cellule di Gülen, accusate di
essersi infiltrate nell’organismo militare.
Nel 1998, secondo i trascritti del tribunale turco citati
nel Turkish Daily News, Gülen aveva incitato i suoi sostenitori all’interno
dell’apparato giudiziario e amministrativo del paese a “lavorare indefessamente
per ottenere il controllo dello Stato”. L’anno seguente, l’emittente televisiva
indipendente ATV mise in onda una registrazione di un ignaro Gülen che
incoraggiava i suoi uomini spiegando “se usciremo allo scoperto troppo presto,
il mondo ci calpesterà. Faranno in modo
che i mussulmani rivivano l’Algeria”, un riferimento chiaro alla vittoria elettorale
schiacciante che il Fronte per la Salvezza Islamica conseguì nello Stato
nordafricano nel 1991; dopo che i leader di partito affermarono di voler abrogare
la Costituzione per sostituirla con la legge islamica, i militari algerini
organizzarono un colpo di Stato che portò alla morte di decine di migliaia di
persone. A causa delle sue affermazioni e minacce velate, il tribunale nel 1998
condannò Gülen per “il tentativo di minare il sistema laico del paese” mentre “cercava
di nascondere i suoi metodi dietro la
parvenza di un’immagine democratica e moderata”.
Condannato in contumacia ma libero di condurre la propria
organizzazione dal proprio esilio negli Stati Uniti, Gülen prosegue ancora oggi
nel suo incoerente appello alla tolleranza e alla laicità. Pone spesso sullo
stesso piano l’ateismo e la separazione tra Stato e religione, un’affermazione
che la maggioranza dei politici e diplomatici laici in Turchia trovano
offensiva: credere che la religione vada coltivata all’interno di un ambito
individuale e non pubblico non significa affatto non credere in Dio. Nel 2004 Gülen
identificò l’ateismo con il terrorismo, affermando che sia gli atei che gli
assassini avrebbero trascorso l’eternità all’inferno.
Gülen ha vissuto tuttavia un periodo di tregua
giudiziaria. Nel 2002, il Partito per la Giustizia e Sviluppo di Erdogan (Adalet ve Kakinma Partisi, AKP) conquistò la
maggioranza nelle elezioni parlamentari e, per un cavillo nella legge
elettorale turca, fu in grado di trasformare un terzo del voto popolare in una
maggioranza parlamentare di due terzi. Erdogan utilizzò il proprio vantaggio
per promuovere riforme che stiparono i suoi seguaci politici e fondamentalisti
religiosi non solo all’interno della pubblica amministrazione, ma anche nelle
istituzioni finanziarie e giudiziarie del paese. I giudici di Erdogan non
persero tempo: rilevarono le proprietà degli oppositori politici, i giornali
indipendenti e le emittenti televisive tra le quali – e non per coincidenza –
l’ATV, e assegnarono giudici di parte agli appelli contro sentenze
precedentemente emanate contro gli islamisti. Il 5 maggio 2006 la Corte Penale
di Ankara ribaltò la sentenza contro Gülen; mentre la pubblica accusa – roccaforte
dei secolarismi – ha fatto ricorso contro l’azione della Corte, il processo sta
ora avviandosi alla conclusione. I seguaci di Gülen sono entusiasti: una volta
ripulito il suo curriculum giudiziario, Gülen potrebbe fare presto ritorno in
Turchia.
Se questo accadrà, Istanbul nel 2008 potrebbe divenire
sospettosamente simile a Tehran nel 1979. Così come i seguaci di Gülen
ribadiscono le sue motivazioni altruistiche e non vedono alcuna contraddizione
tra un movimento segreto basato su un sistema di cellule dormienti e un
apparato governativo che agisce nella trasparenza, sono troppi i giornalisti
occidentali che dimostrano compiacenza e danno via libera a quest’uomo. Se questo non vi suona
familiare, dovrebbe esserlo. Trent’anni fa, Khomeini dichiarò ad un ingenuo
giornalista televisivo austriaco in occasione di un suo breve soggiorno a
Parigi : “Non voglio essere a capo di una repubblica islamica; non voglio avere
il potere né la responsabilità di governo nelle mie mani”. Nel novembre del
1978, Steven Erlanger, futuro corrispondente internazionale del New York Times,
scrisse un articolo per il New Republic in cui sosteneva che il progetto di
Khomeini per l’Iran fosse sostanzialmente “una Repubblica platonica con il
Grande Ayatollah al posto del filosofo re”; e gli ambasciatori statunitensi,
prevedendo il successo di una sinistra liberale e indipendente maggiormente
preoccupata delle condizioni di lavoro nei pozzi petroliferi iraniani che della
necessità di instaurare un regime teocratico a Tehran – proprio come accade ad
Ankara oggi -, preferivano passare i loro pomeriggi ai ritrovi mondani nei
giardini dei politici piuttosto che guardare realmente alle richieste della
popolazione. Non seppero vedere. E mentre il Dipartimento di Stato e la CIA brancolavano
nel buio o sminuivano le preoccupazioni riguardo alle possibili intenzioni di
Khomeini, milioni di iraniani si radunavano all’aeroporto internazionale di Tehran
a salutare il loro Imam. In Turchia si dice che folle simili si raduneranno
quando l’aereo di Gülen sarà in procinto di atterrare ad Istanbul.
Gülen si muoverà attentamente. Non ordinerà la
dissoluzione della Repubblica Turca; tuttavia, protetto dalla sua magione a
Istanbul, potrebbe semplicemente emanare fatwa
che allontanino progressivamente la Turchia da quel laicismo predicato con
tanta ostentazione da Erdogan. Mentre Khomeini si paragonava apertamente con
l’Imam nascosto del Dodicesimo Scisma [che alla fine dei tempi si manifesterà ripristinando l’autorità
legittima e la giustizia fra gli uomini, ndt],
Gülen resterà nell’ombra mentre i suoi sostenitori dipingeranno l’immagine
della restaurazione del califfato che venne almeno formalmente distrutto da Atatürk
nel 1924.
In Turchia, l’ordine ed il costituzionalismo di stampo
secolarista non sono mai stati così traballanti. Il governo ora controlla la
maggior parte delle televisioni e delle emittenti radiofoniche. Erdogan ha
conquistato il dubbio primato di aver fatto causa al maggior numero di
giornalisti e commentatori politici rispetto a qualsiasi Primo Ministro a lui antecedente.
E mentre Erdogan soffoca il dissenso, i suoi sostenitori e quelli di Gülen
pongono l’islamismo e la democrazia sullo stesso piano, e identificano il
laicismo con il fascismo – una convinzione che troppi rappresentanti dei paesi
occidentali sono pronti a sottoscrivere, in nome della tolleranza verso
l’”islam moderato”. Lo stesso Erdogan ha affermato che fu il laicismo a condurre
all’ascesa di Hitler, e che l’islamismo non porterebbe mai a simili risultati.
Il mese scorso, una delle poche autorità giudiziarie indipendenti
rimaste ha intentato una causa ai danni di Erdogan e dell’AKP per aver violato
i dettami costituzionali che decretano la separazione tra religione e politica;
il Primo Ministro ha risposto con una serie di arresti notturni che hanno preso
di mira i principali accademici e giornalisti che avevano osato criticarlo. Il
21 marzo, persino i seguaci di Erdogan furono stupiti alla scoperta che Ilhan
Selçuk, direttore ufficiale di Cumhuriyet e descritto dai turchi come il loro Walter
Cronkite [per antonomasia l’uomo più creduto d’America, ndt] – 80 anni ed ormai
costretto a letto dall’età – era stato arrestato in un raid nel mezzo della
notte con l’accusa di aver progettato un colpo di Stato. La polizia non ha
peraltro ancora fornito alcuna prova a riguardo. Selçuk non è peraltro nemmeno l’unica
vittima di questa recente campagna intimidatoria. Un giornalista dell’Hürriyet
(il giornale laico indipendente “Libertà”), Ahmet Hakan, ha ricevuto
recentemente telefonate intimidatorie dall’avvocato Kemaletin Gülen, parente di
Fethullah.
E mentre gli islamisti proseguono nella loro campagna
d’odio, i rappresentanti dell’Occidente non solo fingono che tutto vada bene ma
– come accade nel caso dei leader palestinesi – spesso il loro sostegno cresce.
La scorsa settimana il Segretario di stato Condoleezza Rice ha parlato del
processo giudiziario contro Erdogan e l’AKP; membri del suo staff sembravano
inizialmente suggerire un approccio morbido che desse implicitamente appoggio
al Primo Ministro. Certo, poteva essere allettante condannare l’azione del
tribunale come un’astuta manovra politica: la requisitoria dell’accusa è mal
scritta e presentata superficialmente. Ciò nonostante, e a prescindere da
queste mancanze, le questioni legali di fondo sono reali. Rice non dovrebbe
esprimersi: qualsiasi interferenza potrebbe ritorcersi contro di lei. La
Turchia, già scontenta dell’ambasciatore statunitense Ross Wilson – il quale
raramente incontra i leader dell’opposizione – interpreterebbe qualsiasi
critica proveniente dalla Casa Bianca come un appoggio all’AKP. I sostenitori
del laicismo si chiederebbero come mai l’opposizione liberale turca non abbia
diritto a ricorrere a mezzi legali. Già si domandano per quale motivo
l’Occidente lodi le azioni legali intentate contro il leader populista Jörg
Haider e contro il demagogo francese Jean Marie Le Pen, blandendo
contemporaneamente l’eccezionalismo giudiziario di Erdogan. Criticando
l’appello alla legge, Rice potrebbe accelerare il ricorso alla violenza e
fomentare il consenso tra coloro che sostengono – erratamente – che la mancanza
di considerazione del governo per la legge e la costituzione vada ripagata con
la stessa moneta. Nel qual caso Rice invece accetti che la giustizia faccia il
suo corso, i conservatori religiosi in Turchia la accuseranno di
strumentalizzare la questione.
Nel corso degli ultimo sette anni, l’Amministrazione Bush
ha compiuto molti errori. Bush aveva riconosciuto correttamente l’importanza
del processo di democratizzazione; l’errata implementazione della strategia ha
tuttavia trasformato un nobile ideale in una brutta parola. Facendo coincidere
la democrazia unicamente con le elezioni, il Dipartimento di Stato e il
Consiglio di Sicurezza hanno reso ambigui gli estremi per un’azione proficua in
Iraq, a Gaza e in Libano. Un uomo, un voto, una volta sola; partiti che
impongono la disciplina con le armi; e politici che tentano di modificare la
legge per farla coincidere con la concezione di Dio e di un imam sono dannosi
per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. L’America non dovrà mai più
abbandonare coloro che condividono i suoi ideali per le promesse di un partito
che usa la religione per sovvertire la democrazia, e preferisce le masse al
governo costituzionale.
La Turchia si sta avvicinando ad un precipizio. Per
favore, Segretario Rice, non la spinga oltre nel baratro.
© National Review on Line
Traduzione di
Alia K. Nardini