Con i Pirati non si può trattare: l’unica risposta possibile è aggredirli
28 Novembre 2008
L’attacco ha avuto inizio quando un vascello non identificato si è diretto verso una nave mercantile in mare aperto e banditi armati fino ai denti hanno compiuto un assalto a bordo. “Ci hanno fatto segno di procedere dritti” ha raccontato uno dei membri dell’equipaggio, ancora terrorizzato “minacciandoci in diverse lingue che se non avessimo obbedito ai loro comandi ci avrebbero massacrati tutti.” Dopodiché hanno derubato i marinai di ogni oggetto di valore e della maggior parte dei loro vestiti, per poi rinchiuderli nello scafo della nave, ormai caduta nelle loro mani.
I prigionieri sarebbero stati mantenuti in condizioni indescrivibili, costretti a sopravvivere con
L’attacco alla nave mercantile, un vascello americano, risale a più di 200 anni fa nel Mediterraneo, all’epoca del flagello dei pirati Berberi. Finanziati dal Marocco e dalle città-stato di Tunisi, Algeri e Tripoli, i pirati depredavano imbarcazioni civili, procedendo al saccheggio del loro carico e al rapimento del loro equipaggio.
“Era scritto nel Corano… che i pirati avessero il diritto e il dovere di fare la guerra a chiunque incontrassero sulla loro strada e di rendere schiavi tutti coloro che fossero riusciti a catturare”, sono le parole dell’emissario del pasha di Tripoli, pronunciate di fronte a un attonito John Adams e Thomas Jefferson nella Londra del 1785. L’emissario aveva richiesto un milione di dollari agli Stati Uniti – un decimo del budget nazionale – per porre fine agli assalti: in caso contrario sarebbero andati incontro alla perdita del prezioso commercio nel Mediterraneo, che rappresentava un quinto di tutte le esportazioni americane.
Si trattava di una scelta lancinante. Senza più alcuna protezione da parte della marina inglese e in mancanza di cannoniere proprie, gli Stati Uniti non avevano alcuna opzione militare a disposizione. E non potevano contare neanche sul supporto internazionale. Il tentativo di Jefferson di creare una coalizione internazionale insieme agli Stati europei era stato respinto sbrigativamente. Indifesi e internazionalmente isolati, gli Americani erano in gran parte contrari all’impiego delle loro scarse risorse nella costruzione della marina; piuttosto preferivano seguire la vecchia abitudine europea di corrompere i pirati – l’eufemismo era cedere un “tributo” – in cambio di un passaggio sicuro. Un George Washington ormai esasperato si confidava con il suo vecchio compagno d’armi Marquis de Lafayette, dicendo: “Volesse il Cielo che noi avessimo una marina in grado di correggere questi nemici dell’umanità o in grado di annientarli come se non fossero mai esistiti.”
La frustrazione di Washington potrebbe ben essere rievocata oggi nell’affrontare i crescenti assalti dei pirati dalla Somalia. Sono più di 90 gli attacchi del genere verificatisi solamente quest’anno – aumentati del triplo rispetto al 2007 – e che hanno portato alla cattura di 14 navi e di 250 membri dei loro equipaggi. Tra i loro trofei, i corsari hanno sequestrato una nave da carico ucraina piena di carri armati sovietici e, più di recente, la petroliera saudita Sirius Star, che trasporta barili di greggio per un valore di oltre 100 milioni di dollari. Questi carichi sono ora trattenuti al largo della costa somala, dove i pirati stanno conducendo delle trattative per il loro rilascio.
Superficialmente, almeno, esistono molte differenze tra i pirati Somali e i loro predecessori Berberi. I banditi della Somalia non hanno alcuno stato che li finanzia ufficialmente né alcun pretesto religioso dichiarato. I loro obiettivi non sono più navi americane, ma bandiere di tutte le nazioni, comprese quelle degli Stati arabi. E sono di certo molto più interessati a richiedere riscatti per carichi di armi e petrolio, piuttosto che per sventurati marinai. Eppure nel XXI secolo, non meno che nel XVIII, la pirateria minaccia il commercio internazionale e pone gli Stati Uniti di fronte a quesiti dalla difficile risposta.
Ad esempio: forse la marina americana dovrebbe combattere attivamente contro i pirati, sulle orme della nave da guerra indiana che ha distrutto un motoscafo somalo all’inizio di questa settimana? Gli Stati Uniti, già iper-impegnati militarmente in due conflitti, possono permettersi di intraprendere un’altra operazione, senza una fine certa, nella stessa area? O forse l’America dovrebbe seguire l’esempio dell’Arabia Saudita e dei vari Stati asiatici che, in base alle statistiche delle Nazioni Unite relative al solo anno in corso, hanno pagato tra i 25 e i 30 milioni di dollari in riscatto ai pirati?
E’ possibile provare a dedurre le risposte dall’esperienza che l’America ha vissuto con i Berberi. In mancanza di una marina e privi della volontà di affrontare lo sforzo economico per costruirne una, i leader americani hanno ben presto scelto di pagare un tributo ai corsari. A cominciare dal 1790, gli Stati Uniti hanno iniziato a versare un’impressionante cifra, pari al 20% del proprio reddito federale, nelle casse del Nord Africa – e questo in aggiunta ai costosi prodotti resinieri e persino ai cannoni e alla polvere da sparo. Eppure più l’America pagava il suo tributo, più la pirateria aumentava. Le società straniere si rifiutavano di spedire i loro prodotti negli scafi americani e i diplomatici statunitensi erano costretti ad attraversare il mare in navi a bandiera europea, per paura di cadere ostaggio dei pirati. Decine di marinai americani hanno sofferto le pene della prigionia.
Umiliato da tante depredazioni, il popolo americano è diventato sempre più critico nei confronti del governo inetto e ha iniziato a chiedere a gran voce che si passasse all’azione. “Guida l’ostile prua verso le rive di Berbera” ha scritto un poeta anonimo, un veterano della battaglia di Bunker Hill, “libera i tuoi figli, e umilia il potere dell’Africa”. In risposta a tale fermento, nel 1794, il Congresso ha approvato un progetto di legge che autorizzava una spesa di 688.882,82 dollari per la costruzione di sei fregate “atte alla protezione del commercio statunitense contro i corsari dell’Algeria”. Dal 1801 l’America disponeva di una marina in grado di respingere gli attacchi dei pirati e di un presidente deciso a farlo. In risposta alla dichiarazione di guerra di Tripoli contro gli Stati Uniti, Thomas Jefferson ordinò a quelle fregate di entrare in battaglia.
Sono molte le sconfitte subite dalle forze navali statunitensi in quelle che più tardi sono state definite le “Barbary Wars”, non per ultima quella che ha visto la cattura della fregata Philadelphia e dei suoi 307 uomini dell’equipaggio da parte di Tripoli. Tuttavia un’intrepida avanzata della marina Usa, congiunta ad una forza mercenaria in marcia per
Dieci anni più tardi, il Presidente James Madison inviò una flotta guidata dal commodoro Stephen Decatur a conquistare i rimanenti stati Berberi. Umiliati di fronte a queste iniziative, gli Europei fecero lo stesso e mandarono le loro navi a perseguire i pirati, mentre gli statunitensi rimanevano comunque all’erta. Uno squadrone Usa – l’antenato dell’attuale Sesta Flotta – venne mandato a pattugliare il Mediterraneo in modo permanente per assicurare che i pirati del Medio Oriente non costituissero mai più una minaccia per il commercio americano.
Senza dubbio oggi il mondo è un luogo molto più complicato di quanto non lo fosse due secoli fa e anche il ruolo internazionale dell’America, un tempo periferico, è ora diventato dominante. Eppure, dopo l’11 Settembre, l’America sarebbe imprudente ad agire unilateralmente contro i pirati. La buona notizia è che non deve farlo. Gli Stati europei, contrariamente al passato – quando rifiutarono di unirsi all’America durante le Guerre contro i Berberi, o più di recente durante la guerra in Iraq – oggi condividono con l’America l’interesse a riportare la pace nei mari. Inoltre, hanno espresso la chiara volontà di cooperare con i militari americani nelle misure adottate contro i banditi della Somalia. A differenza di Washington e Jefferson, George W. Bush e Barack Obama non devono affrontare il problema da soli.
Di certo una campagna del genere non sarà priva di insidie. Esiste il rischio che l’America e i suoi alleati rimangano impantanati a tempo indeterminato nel tentativo di localizzare e distruggere un nemico troppo sfuggente. Le operazioni potrebbero inoltre rivelarsi troppo costose in un momento in cui gli Stati Uniti possono appena permettersele. E non bisogna dimenticare il costante rompicapo rappresentato dal mantenere insieme una coalizione internazionale di cui possono far parte membri che, come molti nostalgici americani, piuttosto che combattere contro i pirati preferiscono corromperli.
A dispetto di questi potenziali rischi, una campagna guidata dagli americani contro i pirati è ormai una certezza. Sebbene i corsari somali ancora non costituiscano un pericolo per il commercio dell’America, saranno incoraggiati ad agire in mancanza di un’energica risposta. Ogni tentativo di contrattare con loro e di pagare un equivalente dell’antico tributo servirebbe solo a dare ulteriore slancio al fenomeno. Adesso, come allora, l’unica risposta efficace contro la pirateria è quella che prevede l’uso della forza.
“Dovremmo offrir loro condizioni chiare e liberali, che escano fuori dalle bocche dei nostri cannoni” cosi parlava il commodoro Decatur. Lo stesso concetto, in modo ancor più incisivo, veniva espresso da William Eaton, comandante della marcia verso Tripoli sostenuta anche dalla marina: “esiste un solo linguaggio che può essere utilizzato con questa gente ed è quello del terrore.”
Gli Stati Uniti non sono più il paese fragile e isolato del 1780. Oggi vantano una potenza navale senza rivali, interamente progettata in suolo nazionale e impiegata in operazioni di vasta portata a livello internazionale, dove è possibile dar sfogo a tutta questa energia contro i pirati. E anche se non c’è dubbio che le forze statunitensi siano intensamente impiegate altrove in quella regione, la lotta contro i pirati della Somalia deve diventare una priorità ora che siamo ancora in tempo. Così come il terrorismo, la pirateria, qualora non venga sradicata, si diffonderà sempre più.
George Washington si augurava che l’America avesse una capacità navale in grado di annientare “i nemici dell’umanità” – e non solo degli Stati Uniti. Il suo sogno è oggi realtà. Dobbiamo solo riconoscerlo.
Tratto da "The Wall Street Journal"