
Con il Coronavirus crollano le fondamenta di una civiltà

14 Marzo 2020
Se continua di questo passo, il Coronavirus produrrà un cambiamento epocale dell’economia mondiale e della stessa civiltà.
La globalizzazione come la conosciamo, è stata basata su due direttrici di marcia: l’aumento spasmodico dei consumi individuali per compensare il crollo della natalità e la delocalizzazione della produzione in Asia.
Il (dis)ordine mondiale che ne è conseguito oggi è messo in discussione dal Coronavirus: chiusura delle attività non essenziali e ripristino delle frontiere degli Stati nazionali, gli unici soggetti politici che hanno conservato credibilità presso la popolazione (v. Mattarella vs Lagarde/Bce).
È anche la fine di una utopia: il falso liberalismo cosmopolitistico che di fronte al virus invocava lo spritz aperol. E che davanti alla impennata delle morti è silenziato.
La questione ambientale poi è archiviata, in pericolo è l’uomo non il pianeta.
Anche la Chiesa, dopo essersi strutturata negli ultimi decenni, per timore della irrilevanza, come agenzia umanista al servizio della mondializzazione, tentenna. La sua dottrina sociale, forse, si è spinta troppo oltre: da animazione delle realtà temporali a totale assorbimento in esse. In poche ore chiude le parrocchie, poi avvertitamente le riapre, riconosciutasi sì irrilevante davanti alla ondata di domanda metafisica di ritorno: l’uomo si riscopre mortale e anela naturalmente alla redenzione da questa sua condizione, che aveva misconosciuto.
Non c’è nemmeno alcuna “bestia” collettiva che possa del tutto sostituirsi all’io e alle sue responsabilità: l’individuo è solo, interrogato dalla sua coscienza e chiamato innanzitutto ad un singolo atto di responsabilità.
Non sembra trattarsi di una semplice influenza passeggera: se questa non è, significa che dobbiamo ripensare alle fondamenta l’attuale paradigma su cui regge l’occidente, se non vogliamo condannarci alla tutt’altro che auspicabile “decrescita felice”.