Con il dietrofront sull’arbitrato si compie un grande passo indietro

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Con il dietrofront sull’arbitrato si compie un grande passo indietro

22 Aprile 2010

Il Governo fa retromarcia sull’arbitrato. La clausola compromissoria – quel patto, cioè, tra impresa e lavoratore di far decidere a un arbitro di loro scelta, anziché al giudice civile, sull’eventuale lite che dovesse insorgere sul rapporto di lavoro –  non potrà mai riguardare le vertenze sulle risoluzioni del contratto di lavoro.

Ieri, infatti, la Commissione lavoro della Camera ha votato gli emendamenti al collegato lavoro, rinviato al Parlamento dal Capo dello stato, tra cui uno che vieta l’applicazione del nuovo arbitrato alle cause relative a licenziamenti e dimissioni. Volendo escludere a priori che possa trattarsi di un ripiegamento della Maggioranza alla guerra sull’articolo 18 di Repubblica (vedi l’Occidentale del 4 marzo) o alle critiche della Cgil sull’incostituzionalità della norma (ne ho parlato il 24 marzo) resta il dubbio: perché l’arretramento?

Ufficialmente, stando alle dichiarazioni del Ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, le modifiche votate ieri «corrispondono alla volontà delle Parti sociali che hanno sottoscritto già un primo accordo circa i modi con cui utilizzare l’arbitrato quale libera opzione del lavoratore e dell’impresa». Sembrerebbe trattarsi, allora, dell’apertura del Governo alle richieste del Sindacato, con la trasposizione nel collegato lavoro dei contenuti dell’accordo dell’11 marzo sottoscritto da 36 sigle sindacali con eccezione della Cgil. Se così fosse (ma non lo è, come spiegherò più avanti), tutto sommato sarebbe un’arguta mossa per spiazzare ed isolare la Cgil che quell’accordo non l’ha mai voluto siglare. Un’azione tattica apprezzabile ma non condivisibile e che si trasforma in un boomerang. Il prezzo che comporta, infatti, è da una parte la rinuncia al passaggio fondamentale per ammodernare il diritto del lavoro e sfollare le aule dei Tribunali; dall’altra parte il rinvigorimento della “forense sindacalista”, la gravosa eredità della riforma del processo del lavoro degli anni 70, che rafforza proprio la Cgil.

Su una rivista di diritto del lavoro del 1992 è scritto: «La riforma processuale del 1973 è nata e si è retta su un compromesso: forte cooperazione del Sindacato e dei suoi avvocati (è questa la “forense sindacalista”, ndr), che effettivamente è stata indispensabile per la sua attuazione, ma a condizione che si massacrasse l’arbitrato». Sono parole di Gino Giugni, padre dello Statuto dei lavoratori, la legge che contiene il famigerato articolo 18.

Sempre l’Emerito Giurista, nel 2005, individuava in «quella arbitrale l’unica alternativa possibile ai meccanismi dilatori della giustizia ordinaria»; confidando infine «di parlare di arbitrato fin da un saggio del 1969, che suscitò una reazione irata negli ambienti del PCI». Se un (buon) risultato si poteva attendere dall’introduzione dell’arbitrato (prima versione) nel sistema giuridico italiano, questo era proprio quello di ristabilire equilibri alle procedure giuridiche e di sfollare le aule dei Tribunali.

Ancora oggi è evidentemente forte la contrapposizione dell’ala conservatrice del diritto (anche processuale) del lavoro con quella  riformatrice e ammodernatrice. La prima, sostenuta dalla Cgil, difende la tesi per l’esclusività della tutela di rango legale dei lavoratori, mediante ricorso ai giudici statali; la seconda, sostenuta dalla Cisl, d’ispirazione moderata e cattolica, appoggia la tesi per una sussidiarietà della legge rispetto all’autonomia privata e collettiva. L’arbitrato (prima versione) avrebbe ridotto i danni della riforma del processo del lavoro operata nel 1973 (legge n. 533), di cui scriveva Giugni a proposito del “compromesso di forte cooperazione del Sindacato e dei suoi avvocati”.

Il Ministro ha affermato che le modifiche votate ieri «corrispondono alla volontà delle Parti sociali» espresse nella dichiarazione comune dell’11 marzo. Si è fatto di più, a parere di chi scrive. Infatti, all’impegno delle Parti di voler escludere “che il ricorso alle clausole compromissorie poste al momento dell’assunzione possa riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro” (cioè divieto di sottoscrizione della clausola compromissoria sui licenziamenti solo all’atto di assunzione, ma non in un momento successivo), l’emendamento di ieri ha escluso la possibilità in qualunque stadio del rapporto di lavoro (per sempre). A cosa serve, ora che non c’è più l’arbitrato sui licenziamenti, l’altra modifica (altro emendamento) che fissa la possibilità di sottoscrivere la clausola compromissoria “una volta concluso il periodo di prova” e che proprio per questa ragione era stata prevista? (cioè per riequilibrare la posizione del contraente debole, il lavoratore).

Il collegato lavoro dovrà ora passare in Aula a Montecitorio (dal 28 aprile) e poi a Palazzo Madama. C’è da augurarsi, a questo punto, un aggiornamento della norma con la reintroduzione dell’arbitrato sui licenziamenti. Magari inserendo la condizione della contrattazione collettiva, come nella prima ora sembrava dovesse succedere (così era trapelato dalla stampa). Per esempio, potrebbe restare il divieto (principio) della clausola compromissoria alle controversie sulla risoluzione del contratto di lavoro lasciando, tuttavia, facoltà di deroga alla contrattazione collettiva mediante sottoscrizione di specifici accordi di disciplina dell’applicazione dell’arbitrato alle vertenze per i licenziamenti.

Le cause di lavoro pendenti in Italia sono quasi un milione e mezzo: un arretrato spaventoso e che continua a crescere giorno dopo giorno. Ogni anno spuntano 400 mila nuovi ricorsi che finiscono d’intasare le aule dei Tribunali contribuendo, inevitabilmente, all’inefficienza della giustizia ordinaria. Una causa di lavoro dura mediamente 2 anni e mezzo; occorrono perciò 7 anni, sempre in media, per conoscerne l’esito finale (in Cassazione) dopo tre gradi di giudizio.

A chi giova tutto questo? Non alle imprese. Per loro, anzi, è un dramma rimanere appesi a una causa di lavoro per lungo tempo, significando non soltanto costi (per gli avvocati) ma soprattutto il rinvio di decisioni aziendali comprese quelle su nuove assunzioni. Non giova ai lavoratori e neanche ai cittadini. Non giova a nessuno, tranne che ai Sindacati e agli avvocati. Veramente allora, per usare un’ultima volta le parole di Gino Giugni, bisogna credere che sopravvive dagli anni 70 «una grande lobby forense, che ha sempre avversato l’arbitrato».