Con il nuovo partito il Cav. torna a parlare agli italiani

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Con il nuovo partito il Cav. torna a parlare agli italiani

27 Novembre 2007

La crisi che stiamo vivendo non è semplicemente
istituzionale, ma storica, strutturale, epocale, come l’ha definita Raffaele
Iannuzzi. Ed è una crisi tutta italiana. E’ la crisi di una cultura politica
che ha segnato  la seconda metà del ‘900
con la prima repubblica e ha infettato anche questi anni di maggioritario.

La
scelta del maggioritario col referendum del ’93, una misura a cui si pensava
dagli anni ’80 per risolvere l’ingovernabilità del paese e la crisi di
rappresentanza, non ha messo fine ai nostri problemi, perché nel maggioritario
è continuata la frammentazione e il partito di maggioranza è stato
continuamente ostacolato dagli alleati.

L’ingegneria costituzionale non è
sufficiente per risolvere una crisi come quella italiana, dove occorre una
bella dose di razionalismo per definire “bipolarismo imperfetto” la semiguerra
civile della prima repubblica, come ha fatto recentemente Sartori,  riprendendo il paradigma di Giorgio Galli,
per il quale il nostro “bipolarismo” era imperfetto perché il Pci non riusciva
ad andare al governo.

Nel maggioritario, a parte Forza Italia, l’unico partito
nuovo che ha rimescolato le identità dei partiti decapitati dal pool di Milano,
sono rimasti con qualche maquillage i vecchi partiti della prima repubblica,
con le loro  lobby, orticelli,
sottoculture politiche e ideologiche.

Questi quindici anni di maggioritario
sono stati vissuti come una specie di guerra civile e con una demonizzazione
dell’avversario volta addirittura a escluderlo dall’arena politica.

er Angelo
Panebianco è stato il clima da guerra civile vissuto dal paese dal 1994 a
rendere impossibile il maggioritario, anche se Sartori ha spiegato bene che il
“bipolarismo” è sempre stato radicatissimo nel paese, sempre diviso dal 1948,
tra comunisti e anticomunisti. E poiché la prima repubblica è stata
caratterizzata da una violenza politica non riscontrabile in nessun’altra
democrazia occidentale, attribuire il fallimento del maggioritario al clima di
guerra civile che ha lacerato il paese, un fenomeno endemico della democrazia
italiana, non pare proprio un argomento convincente, come sembra a Panebianco.

Il clima da guerra civile del maggioritario è stato solo l’ultima
manifestazione di una patologia organica della nostra democrazia, alla cui base
non vi è certo il Dna di quella inglese e americana. In Inghilterra non è un
dramma se vincono  tories o whigs, né
negli Stati Uniti se vincono 
repubblicani o  democratici,
perché in questi paesi il sistema politico è stato scelto con una guerra civile
durissima combattuta soltanto da inglesi e americani per decidere chi doveva
comandare a casa propria.

La circostanza che in Inghilterra  tories e 
whigs portino ancora il nome delle due parti che si combatterono nel
‘600 dimostra che tra vincitori e vinti si realizzò un’intesa tale per la quale
si condivisero le regole del gioco e i valori della futura democrazia
fondatrice dell’impero britannico. In Italia, il fallimento del maggioritario
segnala  un deficit di politica e di
cultura politica e bene ha fatto Berlusconi 
a riportare il popolo al centro della politica per restituirgli la
sovranità.

Piuttosto tortuoso come
editorialista,  Giovanni Sartori è invece
un efficace  demolitore di luoghi comuni
nei suoi libri. In Democrazia. Cos’è ( Rizzoli, 2007), Sartori afferma
che noi non viviamo in una democrazia, ma in una massocrazia, dove la massa è
dispersa e vulnerabile. Nella nostra democrazia, la massa diventa popolo solo
quando vota ogni cinque anni e la nostra democrazia pare simile a quella descritta
da Schumpeter: una procedura istituzionale mediante la quale “alcune persone
acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto
popolare”.

Che la democrazia sia diventata da noi una semplice procedura lo
dimostrano le vicende dell’ultima finanziaria, dove ogni partito, se non ogni
parlamentare, ha giocato per sé stesso. La democrazia ridotta a  semplice procedura legittimatrice di una
galassia di interessi corporativi, clientelari, perfino  personali, la osserviamo ogni giorno di
questo traballante governo Prodi. Non esiste più il popolo, come sottolinea
Sartori. Il popolo non esiste più né come terzo stato, né come quarto stato, né
come proletariato, né come comunità, né tantomeno come populus, come principio
giuridico. Esiste la massa, la folla solitaria, e la democrazia esiste in
quanto “archia”, ma  una democrazia si
definisce tale se esprime una leadership. Diversamente dagli oligarchi che
vivono di politica e non per la politica, Berlusconi  ha rilanciato il problema della
rappresentanza del popolo e della leadership. Quella di Berlusconi è una
sfida  generosa, il cui fine è ridare
agli italiani finora usati come sudditi il ruolo di cittadini di una
democrazia, la cui leadership abbia come scopo la capacità di rappresentarne
gli interessi e i bisogni.

Né più, né meno di quello che scriveva John Locke
nel saggio sul governo civile, dove al popolo veniva attribuito il diritto di
ribellarsi quando è ridotto all’esasperazione da un governo che lo maltratta e
calpesta i suoi diritti.