Con il recupero dell’ICE idee e risorse tornerebbero a disposizione dello Stato

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Con il recupero dell’ICE idee e risorse tornerebbero a disposizione dello Stato

09 Giugno 2011

C’era una volta l’ICE (Istituto per il Commercio Estero); era un ente parastatale che vivacchiava, anche con qualche prestigio, in anfratti dello Stato e delle Ambasciate. Negli anni ‘80, il Governo fece dirigere l’Istituto a Fausto De Franceschi, giovane manager industriale. Egli portò all’interno dell’Istituto una ventata di Azienda, di professionalità e di entusiasmo. Organizzò un giovane gruppo di dirigenti interni, che hanno continuato a guidare l’Istituto fino a qualche anno fa.

L’Ente era ingabbiato nelle armature metalliche pubbliche; la burocrazia schiacciava ogni spinta alla efficienza aziendale. Nel 1989 il Ministro Renato Ruggiero propose al Parlamento di fare uscire l’ICE dal parastato. Ci furono molte mediazioni, che produssero una Legge di riforma ambigua. L’ICE usciva dal parastato ma restava ente pubblico, seppur con una contabilità industriale di tipo privatistico. Il Partito Comunista si oppose a portare l’ICE tra gli Enti pubblici economici (come per esempio erano ENI o ENEL) e tanto meno a trasformarlo in società per azioni, anche se con capitale di controllo pubblico. In quegli anni l’ICE ebbe molti successi, alcuni dei quali clamorosi (tra i tanti altri, la mostra Italia 2000 a Mosca).

Poi il golpe giudiziario nel 1993 spazzò via l’ICE, accusato di irregolarità amministrative, per l’affitto di un ufficio negli Stati Uniti (irregolarità inesistenti, come la stessa Magistratura avrebbe sentenziato dieci anni dopo); così l’Istituto ritornò ad essere ente pubblico, parastatale, per la gioia dei poi-comunisti. Quindi rientrò nell’ombra di gestioni sussurrate, di ragnatele burocratiche, di compressione delle capacità e dell’entusiasmo di gruppi professionali maturati nell’ICE, da De Franceschi in poi. Ci fu addirittura un presidente che si attardava in ufficio fino a notte inoltrata, a studiare qualcosa; i portieri gli spengevano le luci del palazzo, per mandarlo a casa; l’ICE tornò povero, sonnacchioso, triste, girovago nei soliti anfratti del “potere” istituzionale. La Confindustria ha ora proposto con clamore di privatizzare l’ICE; ha riscoperto l’acqua calda di venti anni fa, vendendola come una trovata di ingegno attuale.

Cosa fa l’ICE? Promuove le grandi manifestazioni economiche e commerciali dell’Italia nel mondo; assiste le imprese per l’import e l’export; fa ricerca e formazione in commercio estero. Tutte attività, che ormai nulla hanno a che vedere con un ente pubblico, nel senso giuridico e tradizionale del termine. Ci sono tre Ministeri che gli stanno addosso; quello dello Sviluppo, per le strategie commerciali; quello dell’Economia, per l’uso delle risorse pubbliche; quello degli Esteri, per le relazioni economico-commerciali con gli altri Paesi. Quindi, con tre “capi”pubblici di riferimento, con pochi soldi e soprattutto con un fiume di interventi diretti nel mondo di altri enti pubblici regionali e locali, di camere di commercio, di associazioni industriali, commerciali, di categoria, la vita dell’Istituto sta diventando impossibile. Soluzioni?

O la vecchia idea della privatizzazione, costruendo una società di servizi all’impresa e di organizzazione di eventi promozionali, con partecipazione pubblico-privata. Oppure il progetto di spostare l’Istituto nel quadro del Ministero degli Esteri, per la rete degli uffici nel mondo e in quello dello Sviluppo per le strategie commerciali e le manifestazioni, con possibili economie di scala ricavabili dalle due fusioni. Gli uffici e le attività locali italiane potrebbero essere trasferiti direttamente alle Regioni. Queste non sono queste idee nuove; esse sono datate, ma ancora valide, soprattutto se misurate con la situazione soporifera attuale.

Quindi chi può si dia da fare; ridia vita all’Istituto e alle sue capacità potenziali, tuttora compresse; lo Stato potrebbe recuperare anche un po’ di risorse, disperse in mille rivoli, burocratici e insensati.