Con la crisi le misure a tutela dei precari diventano un boomerang
27 Gennaio 2009
Sarà di basse dimensioni o sarà una catastrofe, la crisi porterà una contrazione dell’occupazione. Il valzer delle cifre non mette tutti d’accordo; le ultime previsioni di fonte Confindustriale sono di quattro giorni fa, quando dalle colonne del Sole24Ore Emma Marcegaglia ha detto in tono preoccupato «che ci saranno, nei prossimi mesi, almeno 600 mila disoccupati in più».
Sono previsioni come detto, e perciò nulla di certo. Tuttavia, sono previsioni attendibili se si guarda agli andamenti di alcuni indicatori economici. Che, se non possono predire con esattezza la cifra dei posti di lavoro che finiranno in fumo, rafforzano la tesi che una contrazione dell’occupazione sarà inevitabile.
Tra i soggetti che corrono maggior rischio di disoccupazione ci sono i lavoratori a termine. Infatti, è molto probabile che a loro le imprese non rinnoveranno il contratto alla scadenza, potendo limitare in questo modo posti e spese del personale. Ma c’è un’altra questione – che nulla a che fare con la crisi, ma ne accentua i negativi effetti – che aumenta il rischio disoccupazione ai lavoratori a termine. E’ la famigerata «misura antiprecarietà» introdotta con il Protocollo Welfare (legge n. 247/2007 del governo Prodi) e parzialmente modificata dalla manovra economica dello scorso anno (dl n. 112/2008). La misura fissa un tetto massimo di 36 mesi alla durata complessiva dei rapporti a termine. Impone, in altre parole, che nella stessa azienda si possa essere assunti a termine, per svolgere le medesime o equivalenti mansioni, fino a 36 mesi. Dopo, una volta raggiunto questo limite, o si resta a casa o si cerca un altro lavoro. Perché in quella stessa azienda si potrà lavorare soltanto da stabili, avendo cioè in mano un’assunzione a tempo indeterminato. Quando la regola non viene osservata scatta la trasformazione del rapporto: da termine (che ha sforato i 36 mesi) a tempo indeterminato.
La misura non è ancora operativa e lo sarà – questo il dilemma – a partire dal prossimo 1° aprile. La data è importante per aziende e lavoratori: l’«incolumità» dell’effetto trasformativo del rapporto, nelle ipotesi di lavoratori vicini al limite di 36 mesi d’impiego nella stessa azienda, è garantita solo ai contratti che vengano a cessare entro il 31 marzo 2009. Un solo giorno di attività in più, invece, potrebbe costare (all’impresa) o profittare (al lavoratore) un’assunzione definitiva.
Ovviamente ci sono delle eccezioni:
· sono esenti i contratti a termine stipulati entro il 31 dicembre 2007 che vanno a scadere dopo il 31 marzo 2009; i periodi di attività svolti si computeranno nel calcolo dei 36 mesi in occasione di nuova assunzione a temine dopo il 31 marzo 2009;
· i contratti a termine sorti dopo il 1° gennaio 2008 si computano nel calcolo dei 36 mesi dopo il 31 marzo. Perciò se terminano entro tale data non vale la «misura antiprecarietà»; altrimenti è necessario andare alla conta del periodo complessivo di attività del lavoratore che, se dovesse risultare superiore a 36 mesi, decreterà la conversione del rapporto a tempo indeterminato.
E’ molto probabile che le aziende, in vista dell’entrata in vigore del tetto (dal 1° aprile 2009, come detto), negli ultimi anni abbiano organizzato le assunzioni a termine in maniera tale da evitare la trappola dei 36 mesi. Se questo è vero, bisogna attendersi un aumento delle cessazioni naturali (per scadenza cioè) dei contratti a temine in questo primo trimestre 2009.
Che fine faranno questi lavoratori? A «deciderlo» sarà la crisi (o anche solo la «paura» di una crisi). L’impresa si troverà di fronte a due possibilità:
a) assumere definitivamente i lavoratori (che risponderebbe, poi, alla molto probabile promessa fatta dall’impresa, tempo fa e prima della crisi, agli stessi lavoratori);
b) liberarsi dei posti di lavoro.
La prima soluzione appare molto poco attendibile per i tempi che corrono: se c’è crisi, infatti, sarebbe un suicidio aumentare il costo del personale. Dunque, è più probabile che venga seguita la seconda soluzione.
Ecco quindi una prima anomalia: diventando operativa in questo periodo di congiuntura economica, la «misura antiprecarietà» rappresenta una buona occasione a favore delle imprese per ridurre i posti di lavoro.
Ma c’è del peggio e trasforma questa «occasione», frutto di pura coincidenza di tempi ed eventi, in un vero e proprio ostacolo per la ripresa dell’occupazione: una volta divenuta operativa, la «misura antiprecarietà» eliminerà quel valido sostegno di flessibilità all’occupazione che arriva dal contratto a termine. Infatti, nella situazione prima ipotizzata, l’impresa si trova a decidere tra due alternative: aumentare o liberarsi di posti di lavoro. Una terza via, quella di rinviare la decisione e di mantenere intanto in forza il lavoratore – come potrebbe servire all’impresa in attesa di previsioni economiche più convincenti – non è invece percorribile. A me che di non mascherare il rapporto sotto diversa specie di contratto (una co.co.co. per esempio) o, addirittura, di nasconderlo del tutto (lavoro nero). Così la «misura antiprecarietà» si va a ritorcere sui lavoratori che voleva preservare, accelerandone lo status di disoccupati.
Sembrano esserci buone e convincenti ragioni per suggerire al governo una moratoria sulla «misura antiprecarietà». L’optimum sarebbe eliminarla del tutto, ma rinviarne l’operatività è già qualcosa. L’importante è farlo presto, prima del 1° aprile. Per evitare che, paradossalmente, una misura ideata per combattere la «precarietà» finisca per complicare una situazione occupazionale di per sé già critica a motivo della crisi.