Con la crisi tutti si affrettano ad aiutare le imprese invece di fare le riforme
22 Dicembre 2008
Infine è successo: l’aiuto che l’amministrazione Bush ha fornito al settore automobilistico lo scorso 19 dicembre è la prova che i governi hanno la memoria corta. Tante volte gli interventi pubblici di sostegno a grandi imprese e a importanti settori industriali sono stati la regola delle crisi, in America e ancor più in Europa, ma mai la soluzione. Nell’immediato, General Motors e Chrysler useranno i 13,4 miliardi di dollari (altri 4 miliardi giungeranno a marzo) concessi dal governo per sopravvivere ma le perdite accumulate (più di 50 miliardi all’anno) e le prospettive molto negative per il 2009 faranno sì che il prestito pubblico esaurirà i suoi effetti salvifici in pochi mesi, proprio come è accaduto ad Alitalia. E’ uno spreco di soldi, ma è soprattutto un uso iniquo e poco lungimirante di risorse pubbliche: sussidiare imprese inefficienti significa distorcere il mercato e distorcere il mercato è la peggior cosa che possa essere fatta in un periodo di crisi. Se infatti non si lasciano fallire le imprese che hanno sbagliato strategia, prodotti o investimenti, si premia l’errore e si toglie la possibilità al mercato di selezionare le imprese migliori su cui si può basare la ripresa economica.
E poi, un intervento pubblico solleva sempre una domanda: perché salvare un determinato settore e non altri? Qualche tempo fa il ministro dell’Agricoltura Zaia ha sussidiato con 50 milioni di euro i produttori di parmigiano reggiano e di grana padano. Il giorno dopo, i produttori di mozzarella di bufala, di pecorino sardo e di altri formaggi tipici hanno fatto sentire la loro voce contro l’ingiustificato trattamento di favore. Se una parte della produzione di grana e parmigiano resta invenduta, non viene giù il mondo: banalmente i produttori dovranno ridurre in futuro l’offerta; non è scritto in cielo che il mercato debba mangiare tanto parmigiano quanto chiedono i produttori.
I sostenitori dei salvataggi pubblici giustificano gli stessi sostenendo che un eventuale fallimento in questo o quel settore manderebbe sul lastrico un numero elevatissimo di lavoratori e famiglie, con effetti nefasti sull’intera economia. Ma se l’obiettivo è proteggere i lavoratori in difficoltà, non sarebbe meglio che lo Stato faccia esattamente questo? Insomma, è meglio lasciar fallire le aziende e destinare le risorse pubbliche direttamente ai lavoratori dei settori in difficoltà (offrendo loro sussidi di disoccupazione, corsi di riqualificazione, prestiti agevolati a chi si mette in proprio). Insieme a questo, vanno implementate le uniche possibili e non distorsive politiche di sostegno al reddito che esistano: il taglio delle tasse e, dove servono, le liberalizzazioni.
Per l’Italia, tutto ciò vale ancora di più, viste le storture del nostro sistema di welfare, la pressione fiscale tanto elevata, i mercati ancora così vischiosi. La crisi potrebbe rappresentare una straordinaria occasione, perché è in periodi come questi, quando non ci si può troppo curare di rendite di posizione e interessi consolidati (ammesso che in altri momenti lo si possa fare), che si può trovar la forza di riformare.
Sul fronte del welfare, la ricetta è nota: le storture del nostro sistema stanno nell’eccesso di risorse destinate alle pensioni a discapito delle altre prestazioni sociali. Nel 2005 le pensioni (anzianità, vecchiaia e reversibilità) hanno assorbito il 60,7 per cento della spesa sociale, contro valori in Francia e in Germania del 44 e 43,5 per cento. Al contrario, nel bilancio sociale italiano c’è molto poco per gli ammortizzatori: l’1,9 per cento del totale della spesa sociale contro una media europea tre volte maggiore. Solo riducendo il peso della spesa pensionistica si possono liberare risorse per il finanziamento degli ammortizzatori sociali e per una riforma complessiva del modello di protezione.
Sulle tasse, andrebbe attivato un’azione di due diligence atta a individuare spesa pubblica improduttiva. Soprattutto, c’è un tesoretto chiamato “patrimonio pubblico” che andrebbe utilizzato: con un grande piano di dismissione (e questa è una misura à la Tremonti o – comunque – à la Tremonti di una volta) si possono liberare risorse per una riduzione delle aliquote Irpef e Ires. Infine, le liberalizzazioni. C’è un grande capitolo, ad esempio, la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, che andrebbe riaperto con urgenza. E c’è da parlare di trasporti, di libere professioni, di grande distribuzione. Più i mercati sono aperti, più c’è concorrenza, più i consumatori possono beneficiare di prezzi bassi. Questi sono gli interventi pubblici che servirebbero davvero.