Con la manovra la Lega dimostra di voler difendere la partitocrazia

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Con la manovra la Lega dimostra di voler difendere la partitocrazia

08 Settembre 2011

Data la convulsa cronaca di questi giorni, in cui la manovra economica bis è venuta modificandosi quasi ora per ora, in modo sempre meno soddisfacente e sempre più confuso, è forse utile, per evitare di annebbiarsi ancora di più le idee, riportare l’attenzione sulla prima origine di questa impasse che ha indebolito il governo e non ha accresciuto la credibilità del nostro Paese.

A inizio dello scorso mese, quando è stato chiaro che per un insieme di fattori (cattiva governance dell’area euro, protrarsi della crisi economica con rischi maggiori per i Paesi storicamente gravati da un forte debito) occorreva procedere a misure di risanamento strutturale dei conti dello Stato, si è subito ventilata l’ipotesi di un intervento sulle pensioni. Bloccare le pensioni di anzianità, aumentare in tempi rapidi l’età pensionabile per le donne e per gli uomini, magari estendere il calcolo contributivo anche a fasce di lavoratori più vecchi erano misure che consentivano risparmi sicuri e crescenti. Inoltre si trattava di interventi perequativi per i lavoratori più giovani che avranno sicuramente assegni pensionistici meno generosi. La strada maestra del risanamento strutturale è stata però subito bloccata dal veto di Umberto Bossi che ha fatto risuonare un tetro slogan di sapore bertinottiano: "Le pensioni non si toccano". A partire da quel veto che, nelle successive settimane, è stato difeso con le unghie e con i denti dai dirigenti leghisti la manovra è venuta peggiorando man mano, risolvendosi in buona parte in un aumento della pressione fiscale.

Pure, al di là delle considerazioni di politica economica, questo episodio è interessante perché costituisce una sorta di cartina di tornasole dell’attitudine con cui la Lega si muove dentro il sistema politico. Per capirlo, senza risalire indietro nel tempo come si potrebbe agevolmente fare, sarà sufficiente limitarsi ad alcuni esempi relativi all’ultimo anno. Nel novembre dello scorso anno a partire da un’iniziativa bipartisan di due senatori (del Pdl e del Pd) si tentò di accelerare l’iter parlamentare di un disegno di legge costituzionale volto a reintrodurre l’immunità parlamentare improvvidamente cancellata nel 1993. L’iniziativa aveva un duplice scopo. Da un lato riequilibrare il rapporto tra politica e magistratura assai sbilanciato a favore dei giudici, senza imbarcarsi nel difficile iter di una riforma della magistratura. In secondo luogo era un modo per trovare un minimo comun denominatore con l’opposizione su obiettivi di normalizzazione del quadro politico e di stabilizzazione del sistema. Anche in quel caso l’iniziativa (per la quale i margini non erano amplissimi ma che aveva sulla carta una maggioranza in parlamento), venne bloccata da Bossi con un perentorio: i nostri elettori non capirebbero. Una sparata che non si sa se definire più demagogica o più qualunquista, ma che comunque denota un profondo disprezzo per il buonsenso del comune cittadino.

Pochi mesi dopo c’è stata la vicenda libica. L’intervento in Libia a torto o a ragione (più a torto che a ragione a nostro sommesso avviso) è stato vissuto da buona parte del centrodestra come una scelta imposta da sgradevoli condizionamenti internazionali. Tuttavia l’Italia è parte di un’alleanza (peraltro un’alleanza che ci ha assicurato molti vantaggi in oltre sessanta anni, ed è buona politica saper accettare anche le incombenze meno divertenti che da quell’alleanza possono, alle volte, derivare. In sostanza una elementare regola di lealtà politica imponeva, una volta accettata la partecipazione alla campagna militare, una piena solidarietà all’interno della compagine governativa. Incurante di queste elementari norme di galateo politico i dirigenti leghisti hanno fatto a gare per squalificare l’intervento moltiplicando pubbliche dichiarazioni di dissenso e distinguo pelosi, con l’unico risultato di mettere in difficoltà tutta la maggioranza.

Come si evince anche da una sommaria rassegna relativa a un arco di tempo di meno di un anno, la Lega non solo è un fattore di tensione costante nel governo, ma agisce sempre per rendere instabile il sistema politico. Come se il partito potesse vivere solo se lo scontro politico resta in un’eterna fibrillazione. Qualche tempo fa Angelo Panebianco ha definito il partito di Bossi un "aggressivo sindacato territoriale". Probabilmente è una definizione troppo generosa. La Lega è un partito che esprime il retaggio negativo della partitocrazia. La ragione di partito fa sempre premio ampiamente su qualunque altra considerazione, ostacolando sempre il riassesto del sistema politico. Per questo il partito leghista non si merita di sposare le cause più demagogiche e di assecondare le pulsioni più corporative. Anche quello che alcuni osservatori ritengono il merito storico del movimento leghista, cioè l’aver messo all’ordine del giorno la questione settentrionale, è oramai una foglia di fico che copre malamente una volontà di conservazione e di parassitismo che non solo fa male al Paese, ma che finisce per penalizzare anche il Nord.