Con la riforma delle pensioni i conti tornano finalmente a quadrare
28 Dicembre 2010
Sulle pensioni i conti adesso tornano. Il risparmio è di 38,307 miliardi di euro in 10 anni che sale ad oltre il doppio, ossia a 80,605 mld di euro, nel 2045. Un risparmio che, soltanto dal 2011 al 2020, significa oltre 3 punti percentuali di Pil (3,52%) per circa 9 milioni di pensionati in meno. I dati dimostrano gli effetti della “riforma Sacconi” delle pensioni introdotta dalla legge n. 122/2010 (la manovra estiva) in vigore dal prossimo 1° gennaio 2011. Effetti illustrati alla Camera dei Deputati dal Presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, in occasione dell’audizione sul Libro Verde Ue sul futuro dei sistemi pensionistici.
Se è vero che i conti torneranno per le casse dello Stato, meno lo si può dire per le tasche dei lavoratori. Tra nonno e nipote, infatti, ci sarà un divario anche di oltre 20 anni di maggior lavoro prima della pensione; e tra padre e figlio di almeno 10 anni. E il vero problema – evidenziato anche dal Presidente dell’Inps – resterà quello dell’adeguatezza degli assegni pensionistici. Assegni che tendono al ribasso per il fatto di dipendere dai livelli retributivi della vita lavorativa (altalenanti e non continui) e dalla possibilità/capacità d’integrazione (per esempio, pensione integrativa).
Negli ultimi 30 anni si è assistito ad un continuo rimaneggiamento delle pensioni. Nel 1992, con la riforma Amato, è stato introdotto un graduale aumento dell’età per la pensione di vecchiaia, da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini. Nel 1996, con la riforma Dini, e poi nel 2004, con la riforma Maroni anche l’età per la pensione di anzianità è stata fatta salire gradualmente da 52 a 62 anni. E’ stata poi la volta della riforma Damiano che, con il Protocollo Welfare nel 2007, ha introdotto le cosiddette “quote”. E arriviamo ai nostri giorni. Alla riforma più incisiva, arrivata lo scorso anno con la cosiddetta manovra estiva.
E’ la riforma targata Sacconi, che introduce diverse novità tre delle quali fondamentali: l’elevazione, a partire dall’anno 2012, a 65 anni dell’età per la pensione di vecchiaia delle donne del pubblico impiego; il collegamento automatico, a partire dall’anno 2015, del requisito d’età per tutte le pensioni all’incremento alla speranza di vita Istat; il rinvio del momento di effettiva decorrenza della pensione (sia di vecchiaia che anzianità) di 12 mesi ai lavoratori dipendenti e di 18 mesi a quelli autonomi (cosiddetta “finestra mobile” che, praticamente, significa elevare “l’età” di pensionamento di 1 anno ovvero di 1,5 anni).
La “vecchiaia” dal 2011. Non ci sono novità sui requisiti (età e contribuzione), ma solo sulle “finestre”. Pertanto, come per il corrente anno, anche dal prossimo 1° gennaio la pensione di vecchiaia si ottiene in presenza di un minimo di 20 anni di contributi (1040 settimane) e un’età di 65 anni per gli uomini, di 60 anni per le donne del settore privato e di 61 anni per le donne del pubblico impiego. Per effetto delle “finestre”, tuttavia, l’epoca di effettivo pensionamento è slittato quest’anno di 4/6 mesi; chi maturerà il diritto alla pensione da sabato prossimo, 1° gennaio 2011, otterrà il primo assegno di pensione dopo 12 mesi (cioè a partire dal 13mo mese successivo a quello di maturazione del diritto) se è un lavoratore dipendente ovvero dopo 18 mesi (cioè a partire dal 19mo mese successivo a quello di maturazione del diritto) se è un lavoratore autonomo.
Facciamo qualche previsione più in là con gli anni. Stando ai calcoli presentanti dall’Inps, nel 2015 l’età di pensionamento di vecchiaia salirà di 3 mesi per effetto della maggiore “speranza di vita”. Di conseguenza, l’effettiva età di accesso alla pensione dei lavoratori dipendenti (considerando pure le “finestre”) passerà a 66 anni e 3 mesi se uomini e donne del pubblico impiego e a 61 anni e 3 mesi se donne del settore privato; nel 2030 salirà a 67 anni e 7 mesi se uomini o donne del pubblico impiego, e a 62 anni e 7 mesi se donne del settore privato; nel 2040 a 68 anni e 10 mesi se uomini o donne del pubblico impiego, e a 63 anni e 10 mesi se donne del settore privato; nel 2050 a 69 anni e 7 mesi se uomini o donne del pubblico impiego, e a 64 anni e 7 mesi se donne del settore privato (per i lavoratori/trici autonomi/e le predette età vanno aumentate di 6 mesi).
La “anzianità” dal 2011. Dal prossimo 1° gennaio ci sono due novità: la nuova “quota” e le nuove finestre. Fino al prossimo 31 dicembre vige la quota 95 per i lavoratori dipendenti e la quota 96 per quelli autonomi: ai primi serve un’età di almeno 59 anni e minimo 35 anni di contributi per andare in pensione; ai secondi un’età di 60 anni minimo in presenza di 35 anni di contributi. Da sabato prossimo, 1° gennaio 2011 (e fino al 31 dicembre 2012), occorre maturare la quota 96 per i lavoratori dipendenti e la quota 97 per quelli autonomi. Allora, i lavoratori dipendenti potranno andare in pensione con un minimo di età di 60 anni (e in tal caso servirà una contribuzione di almeno 36 anni per raggiungere la quota 96) oppure con un minimo di contributi di 35 anni (e in tal caso servirà un’età di almeno 61 anni per raggiungere la quota 96); i lavoratori autonomi potranno andare in pensione con un minimo di età di 61 anni (e in tal caso servirà una contribuzione di almeno 36 anni per raggiungere la quota 97) oppure con un minimo di contributi di 35 anni (e in tal caso servirà un’età di almeno 62 anni per raggiungere la quota 97). Per effetto della nuova “finestra”, poi, l’effettiva epoca di accesso alla pensione slitterà in avanti di 12 mesi nel caso di lavoratori dipendenti e di 18 mesi nel caso di lavoratori autonomi.
I numeri della previdenza. L’intervento del Presidente Inps ha spiegato che in Italia ci sono circa 16,7 milioni di pensionati che, nel loro insieme, percepiscono circa 23,8 milioni di trattamenti pensionistici d’invalidità, di vecchiaia, di reversibilità (superstiti), assistenziali e indennitari. Dunque, in media 1,4 pensioni per pensionato. Nel 2009, l’importo medio annuo lordo del reddito pensionistico percepito è stato di 15.071 euro annui: le donne 12.495 e gli uomini 17.978.
A proposito della sostenibilità del “sistema previdenza Italia”, il Presidente ha evidenziato i riflessi negativi che l’attuale crisi economica produrrà sulle pensioni degli italiani. L’Istat, ha spiegato Mastrapasqua, ha accertato nel 2009 una variazione negativa del Pil nominale pari al – 3%. Il 2010-2014 è periodo di calcolo della media quinquennale in cui tale variazione negativa del Pil esplicherà i suoi effetti sul “montante contributivo” (figurativamente è un “salvadanaio” dove i lavoratori conservano i contributi di tutta la vita lavorativa e che andrà rotto al momento della pensione, per determinare l’importo della pensione). Ciò in quanto il calcolo “contributivo” della pensione prevede che il montante contributivo venga rivalutato al tasso annuo di capitalizzazione dato dalla media quinquennale del Pil: quando il Pil è negativo, ne deriva giocoforza una “rivalutazione” non significativa.
Le misure di carattere strutturale contenute nella manovra Sacconi, ha spiegato ancora il Presidente dell’Inps, sono destinate a produrre nel tempo dei risparmi di spesa che compensano in termini di stabilità del sistema pensionistico gli effetti negativi prodotti della congiuntura economica. Questa, infatti, ha comportato (e comporta) anche una sensibile riduzione delle entrate contributive, quelle che servono cioè a pagare le “pensioni” a coloro che non sono più al lavoro (per via dell’aumento della disoccupazione). Nelle previsioni dell’Inps, i risparmi in termini di variazione della spesa pensionistica e variazioni del numero di pensioni saranno molto consistenti. Nel 2011, per esempio, è previsto un risparmio di 392 milioni di euro e 90mila pensionati in meno; nel 2020 è di 5,162 miliardi di euro e 348mila pensionati in meno. Nel periodo 2011-2020 (sommando, cioè, i dati di ogni singolo anno compreso nel periodo), il risparmio di spesa è stimato a euro 38,307 miliardi, mentre i pensionati in mero 2,203 milioni. Nel periodo 2011-2049, il risparmio ammonta a 80,605 miliardi di euro, mentre i pensionati in meno saranno stati 7,261 milioni (8,740 milioni se si considera anche l’anno 2050).
Ma resta il problema dell’adeguatezza delle pensioni. Il Presidente dell’Inps ha affrontato anche il tema dell’adeguatezza delle pensioni. E’ un problema, ha spiegato, interdipendente dai livelli retributivi prodotti nel corso dell’attività lavorativa, dai meccanismi di calcolo della prestazione e dalla capacità dello Stato di sostenere, con provvedimenti assistenziali, le eventuali integrazioni.
Per le pensioni liquidate con il sistema di “calcolo retributivo” – interessa chi è andato in pensione prima del 1996 e chi sta andando in pensione avendo maturato, al 31 dicembre 1995, almeno 18 anni di contributi –, il principio dell’adeguatezza dell’assegno di pensione è realizzato con l’istituto dell’integrazione della pensione al “trattamento minimo”. L’integrazione al trattamento minimo invece non c’è e non si applica alle pensioni contributive – interessa i lavoratori di oggi, cioè i lavoratori che non possono vantare almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 –. Peraltro, il diritto alla pensione non può essere conseguito prima del 65° anno d’età qualora la sua misura non risulti superiore a 1,2 volte l’assegno sociale (nel 2010 pari a 493,84 euro mensili).