Con la Robin Hood Tax si rischia di curare una polmonite con l’aspirina
09 Giugno 2008
Si fa tutto un gran vociare riguardo alla fantomatica Robin Hood Tax, il prelievo etico che le compagnie petrolifere e le banche potrebbero essere costrette a pagare dal prossimo Dpef (documento di programmazione economico-finanziaria). Fantomatica perché per ora il provvedimento rimane solo un’idea. Ma dietro a questa ipotesi, cosa si cela?
Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, è stato chiaro, ricordando come banchieri e petrolieri abbiano guadagnato troppo rispetto ad un mercato in piena crisi. Il principio è semplice, quanto efficace: sono avvenute delle asimmetrie di profitto legate alla congiuntura economica che sta mettendo in ginocchio l’economia globale. L’inflazione che galoppa verso quota 4% nell’area Euro è il sintomo di una malattia profonda, ma non del tutto nostrana. Certo, perché il raffinamento dei dati Istat riguardanti l’indice dei prezzi al consumo ci fa comprendere come non vi sia solo una causa autoctona alla base degli aumenti dei beni primari. Eppure, almeno in Italia, il riferimento ai prezzo dei carburanti è quello più calzante. Benzina e gasolio che nel giro di un anno aumentano di oltre il 25%, per poi scendere soltanto poco al di sotto delle soglie di prezzo raggiunte, nonostante le fluttuazioni del petrolio sulle borse mondiali. Come dire, la curva di prezzo dei carburanti si discosta troppo dall’andamento del suo bene d’origine, il petrolio. Proprio in questa forbice vuol intervenire Tremonti. La soluzione quindi può essere quella di limitare le posizioni di vantaggio rispetto ai consumatori attraverso una tassazione aggiuntiva per i settori sopra citati. Da un punto di vista puramente etico, passi che questa ipotesi sia anche plausibile, ma dall’ottica del mercato? Si cerca di curare una polmonite con una semplice aspirina, per di più scaduta.
I mercati in questione sono forme distorte del modello originario di tutti i testi elementari di economia: settori in cui le poche imprese che superano le pesanti barriere all’entrata possono agire in modo quasi del tutto indisturbato, in altre parole oligopoli. Mercati in cui solo ora qualche barlume di concorrenza sta balenando nel cielo. L’imposizione non è mai cosa gradita ai fautori del libero mercato, ma in questo caso potrebbe anche essere deleteria per chi la porta avanti. Non bisogna dimenticare che Eni, il colosso petrolifero, è controllato tramite golden share dallo Stato: tassare lei significa tassare se stessi e tutti i cittadini. Si, perché l’economia è comunque una scienza sociale ed il secondo termine non va mai sottovalutato. La notizia di questa probabile nuova imposta sta già avendo sviluppi negativi: proprio in attesa dell’avveramento della misura, alcuni distributori hanno provveduto ad aumentare i prezzi, come a volersi coprire le spalle prima del prossimo luglio, quando sarà presentato il Dpef.
Un’altra soluzione, molto suggestiva, vedrebbe colpiti due strumenti di incremento della produttività: stock options e fondi pensione. Si sa, ogni mondo è paese, ma certe abitudini si trasmettono velocemente, se universalmente riconosciute come valide. Questo è il caso degli incentivi di produzione, vere e proprie manne dal cielo per il top management di ogni impresa. Opzioni su azioni della propria società o previdenza per il futuro, il risultato non cambia, sono soldi che entrano nelle tasche dei manager a seguito del raggiungimento degli obiettivi prefissati. Eppure, agendo in questo modo, colpendo la fetta dei benefits elargiti, non si fa altro che trovare un capro espiatorio. Considerate le responsabilità che il Ceo di una multinazionale deve sobbarcarsi, viene da chiedersi se sia ragionevole o no privargli quello che, col suo lavoro e le sue incombenze, si è guadagnato. Poco importa a quanto ammonta il suo compenso, se così è stato deciso non deve prevalere il sentimento dell’invidia sociale.
Una possibile via, dato che nulla è ancora stato chiarito, rimane quella dell’apertura verso nuovi competitors. Si prenda il caso dei distributori di carburanti “alternativi”, quelli con marchi non convenzionali: il risparmio è garantito e la qualità è paritetica a quella dei marchi celebri. L’italiano medio, però, è piuttosto pigro quando si tratta di cercare il prezzo migliore e quindi si accontenta di pagare di più.
In questo clima, non aiutano nemmeno le notizie che giungono dagli Emirati Arabi Uniti, dove si attende che il costo del petrolio per singolo barile raggiunga quota 200 dollari entro la fine dell’anno. In questo caso si tratterebbe del classico caso di profezie auto-avveranti perché, è vero che Morgan Stanley e Goldman Sachs auspicano i 150 $ a luglio, ma ipotizzare le corse dell’oro nero come lo fanno i sauditi significa spingere il mercato verso ciò che dicono. Il classico modo per controllare in modo stringente l’andamento delle materie prime. E come si fa allora ad ignorare, anche alla luce di queste tensioni, che tutto ciò che sta turbando il mercato italiano (ed europeo) non è creazione interna? La consapevolezza di questo potrebbe permettere di assumere l’antibiotico necessario, e non l’aspirina…