Con la vittoria di Marjah inizia la lunga ritirata degli Usa dall’Afghanistan
18 Febbraio 2010
Cinque giorni dopo l’inizio dell’Operazione Moshtarak i soldati dell’esercito afghano hanno issato la bandiera nel centro di Marjah, la città della provincia di Helmand strappata ai Talebani, che ne avevano fatto una delle loro roccaforti nel Sud dell’Afghanistan (siamo sulla strada che porta a Kandahar). L’Afghan National Army ha vinto la sua prima battaglia insieme ai 6.000 Marines che nei giorni scorsi hanno mostrato, ancora una volta, la loro preparazione, il loro coraggio e la loro disciplina, prima “bonificando” i terreni disseminati di IEDs e trappole esplosive nelle campagne della zona meridionale intorno alla città e in seguito penetrando nell’abitato, con un massiccio appoggio di elicotteri da trasporto e da combattimento e della aviazione.
Non è stata un’azione militare facile, visto che il comando americano ha dovuto fare i conti con l’artiglieria e i cecchini Talebani che hanno resistito per tre giorni nel Bazar e nelle zone centrali di Marjah, un grosso centro di 80.000 abitanti che – insieme alla vicina Nad Ali (dove le truppe inglesi hanno incontrato una minore resistenza) – fruttava agli “Studenti di Dio” oltre 200.000 dollari al mese grazie al traffico di oppio. Due giorni fa, il capitano Abrahm Sipe spiegava che i “Marine hanno incontrato una forte resistenza, ma stanno registrando progressi costanti in tutta l’area”, finché ieri il segretario generale della Nato ha potuto finalmente affermare che “si tratta di un successo militare e anche un successo sul fronte della assistenza ai civili”. Almeno in apparenza la prima vera prova del surge di Obama è riuscita, ma in Afghanistan è meglio non gioire troppo in anticipo.
La prima considerazione che va fatta sull’operazione Moshtarak riguarda il tono un po’ enfatico con cui è stata accolta dai giornali americani e occidentali. Come se non sapessimo che la guerriglia talebana è pronta a confondersi nella folla, a sparire per poi riemergere e colpire quando meno te lo l’aspetti. Non è un gioco iniziato ieri, sono 8 anni che gli americani e le forze della Nato combattono in questo modo, e se pensiamo che gli Usa impegnano in Afghanistan un numero di truppe minore di quelle che usarono, in rapporto, nella guerra in Bosnia, oltre a calcolare le limitazioni delle regole di ingaggio degli Alleati, si può capire che di questo passo ci vorrà molto tempo per schiacciare il nemico – sempre che sia questo l’obiettivo, come vedremo meglio più avanti, parlando del ritiro annunciato dal Presidente Obama nel 2011.
Meglio andarci piano con gli stereotipi per cui in guerra gli occidentali sarebbero avversari leali che combattono in campo aperto e gli arabi solo una manica di guerriglieri pronti a fregarti se non stai attento. E’ vero, ci sono le IED’s, ci sono i cecchini, ma c’è anche l’artiglieria e un "esercito" talebano che a Marjah ha tenuto duro combattendo una vera battaglia, anche se per poco tempo.
La seconda considerazione riguarda il modo in cui si decide di vincere una guerra, quando si decide di farlo. Obama non ha questo scopo perché intende ritirarsi. Sarà una ritirata parziale e graduale, una “transition strategy” come dicono alla Nato, una strategia militare che punta a rafforzare il governo centrale di Karzai, l’esercito e la polizia afghana (nelle prossime settimane è previsto l’arrivo di oltre 6.000 nuove reclute nel distretto di Marjah, accompagnate dai consulenti militari dell’Alleanza); il Presidente vuole “conquistare i cuori” della popolazione e quelli dei Talebani “moderati”, con l’obiettivo finale di ritirarsi lasciandosi dietro un minimo di stabilità politica e ripresa economica e sociale, invece che un redivivo Emirato Talebano soccorso dai rimasugli di Al Qaeda tornati dal Pakistan (le forze di sicurezza di Islamabad hanno arrestato un esponente di spicco dei Talebani e c’è da sperare che il governo pakistano continui su questa strada).
Ma se il ritiro dovesse avvenire troppo in fretta e il governo Karzai cadesse sotto il peso degli scandali e della corruzione, se a riemergere fosse l’animo tribale e localistico degli afghani, le logiche di tipo etnico e religioso, in un contesto nel quale l’intelligence alleata non sembra in grado di evitare pesanti infiltrazioni talebane nelle fila della polizia e dell’esercito governativo, allora il piano di Obama potrebbe complicarsi e avviarsi al fallimento. Anche i negoziati con i Talebani, o con le forze dell’insorgenza che secondo i generali americani daranno vita a un “risorgimento” afghano, andrebbero valutati attentamente: gli Studenti di Dio dalla loro hanno il tempo e possono aspettare che gli americani smobilitino, logorandoli come avvenne con i sovietici.
Per adesso quella di Obama sembra una strategia rischiosa più che "realistica". Una visione che non somiglia né a quella che ha sostenuto la "War on Terror" degli anni scorsi, né quella che permise agli Usa di vincere la Seconda Guerra mondiale. Questo ci porta alla terza considerazione e ancora una volta alla politica estera seguita fino ad ora dal Presidente democratico. Obama non ha la forza di volontà del suo predecessore e guarda al conflitto afghano con occhio deterministico, valutandone la fattibilità, i punti di forza e di debolezza, e modificando la sua strategia in base al mutare delle variabili, nella convinzione che non si possa “estirpare il Male” anche se non dobbiamo scendere a patti con esso. Al Presidente manca quello scatto aggressivo e ideale che le democrazie tirano fuori quando si sentono davvero minacciate, come avvenne negli anni Quaranta o dopo l’11 Settembre. Quello che può garantire Obama dopo la vittoria di Marjah è una decente ritirata.