Con l’arresto di Lusi il Pd crede di aver chiuso il caso, ma non è detto

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Con l’arresto di Lusi il Pd crede di aver chiuso il caso, ma non è detto

21 Giugno 2012

di L. B.

Ora che Luigi Lusi è dietro le sbarre di Rebibbia il ‘caso’ è chiuso? Il Pd ha cercato di chiuderlo più in fretta possibile. Prima in Giunta per le autorizzazioni a procedere accelerando il voto prima ancora che arrivassero le ultime carte da esaminare; poi in Aula cavalcando l’onda anomala dell’antipolitica sperando così di non rimanerne travolto e contando sull’effetto mediatico e sociologico del ‘male assoluto’ e unico, da bruciare sul rogo. Effetto che avrebbe finito per ‘contagiare’ anche i garantisti del Pdl. Un tentativo, insomma, di tirare gli altri in un regolamento di conti tutto interno al partito ex di Rutelli e di conseguenza a quello di Bersani. Mossa fallita perché il Pdl non si è prestato alle strumentalizzazioni: voto palese e libertà di coscienza ma fuori dall’Aula prima del voto.

 Posizione sancita in una lunga e a tratti tesa riunione del gruppo a Palazzo Madama, presente Alfano, frutto di una mediazione tra una ventina di senatori favorevoli allo scrutinio segreto e al no all’arresto e chi, invece, sosteneva la necessità di non partecipare al voto inchiodando la sinistra di fronte alle sue responsabilità, prima di tutto politiche.  

Luigi Lusi il ‘ladro, il mascalzone’ come più volte è stato definito dai vertici della Margherita, Rutelli in testa che ieri non ha votato (“Dopo mesi in cui ho difeso il mio onore e quello della Margherita con le unghie e con i denti, ho ritenuto opportuno non parlare come accusatore politico, nè votare, poichè rappresento la parte offesa, cioè le numerose vittime, nel procedimento contro Lusi”) e alla fine ha spiegato che “è toccato al Senato, nella sua libertà, decidere”. Luigi Lusi il senatore, Dl poi Pd, quindi espulso, che in Aula ha ammesso i propri errori anche se – ha sottolineato – ‘ammissione non significa confessione’ e per questo ha chiamato in causa i vertici del suo ex partito (morto nel 2007 ma vivo quanto basta per ricevere la sua quota di finanziamento pubblico).

Anche quando è uscito da Palazzo Madama per aspettare nella villa di Genzano la Guardia di Finanza per il trasferimento a Rebibbia, il senatore ha lanciato frasi sibilline facendo sapere di non aver “detto tutto” alla magistratura, che “ci sono ancora approfondimenti da fare con i pubblici ministeri. Se lo vogliono”. Si considera una vittima sacrificale e punta l’indice contro quelle che definisce “liste di proscrizione”. Promette battaglia: “Non mi dimetto da senatore, combatterò e forse ci rivedremo qui a Natale”. Perché, “questo è un voto politico, è il segno dei tempi” e non è detto che “non ci sia un giudice anche a Roma, oltre che a Berlino”. Non è detto, appunto. E forse, a chiudere il caso Lusi non basterà una cella a Rebibbia.