Con l’inflazione ai minimi serve una nuova politica dei redditi
01 Luglio 2009
Era il dato più prevedibile di questa crisi economica: l’inflazione in frenata in tutta Europa non sorprende nessuno, neppure quegli economisti che spesso non ne azzeccano una. La gelata dei prezzi è legata a doppio nodo alla diminuzione dei costi per l’energia, ma in larga parte è dovuta al calo dei consumi, alla recessione e all’aumento della disoccupazione. I dati sull’inflazione, proprio per la loro evidenza, possono quindi consentire a tutti di trovare un punto d’accordo su quale sia la priorità da affrontare per rimettere in moto l’economia: il rilancio della domanda.
Il tasso di inflazione registrato a giugno, pari al +0,5% annuo, sulla base della stima preliminare diffusa dall’Istat, è il più basso da settembre 1968, quando si attestò al +0,4%. È negativa invece, per la prima volta nella storia, l’inflazione nella zona euro: a giugno 2009, secondo l’Eurostat, il tasso annuale è sceso a -0,1%, segnalando cioè un lieve calo del livello dei prezzi rispetto al giugno dello scorso anno.
Questi dati non sono di per sé negativi: il contenimento dei prezzi è da sempre uno degli obiettivi della politica economica dei governi, per dare stabilità e competitività ai mercati e per mettere al riparo dalle incertezze gli operatori economici. Oggi, però, le dinamiche deflattive non sono il risultato di attente politiche monetarie e salariali, ma sono la desolante conseguenza della debolezza di tutto il sistema.
La teoria economica indica tra gli obiettivi da perseguire quello di trovare il giusto equilibrio tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione. In uno studio del 1958 che ha dato origine a una vasta letteratura, l’economista neozelandese Alban William Philips dimostrò in modo empirico che tra variazione dei salari e livello occupazionale c’è un rapporto inverso: elevati livelli di disoccupazione erano associati a salari in declino, bassi livelli di disoccupazione a salari in aumento. Poiché l’ammontare dei salari costituisce una componente fondamentale nella determinazione dei prezzi, la relazione è stata utilizzata anche per esprimere il rapporto inverso tra inflazione e disoccupazione.
A supporto di questa teoria sono state fornite diverse spiegazioni. In particolare è stato sostenuto che con tassi di disoccupazione più bassi aumentano le tensioni sul mercato del lavoro, questo conduce a maggiori rivendicazioni salariali e quindi a una crescita delle retribuzioni e dell’inflazione. Il contrario succede quando un’elevata disoccupazione spinge alla difesa del posto di lavoro piuttosto che alla ricerca di salari più elevati.
È quanto sta accadendo in Italia: in molti casi si assiste a riduzioni concordate dello stipendio tra lavoratori e azienda pur di scongiurare l’incubo dei licenziamenti. Questi comportamenti possono essere un palliativo nell’immediato, ma alla lunga deprimono ancora di più la domanda e conducono verso ulteriori cali dei prezzi e della produzione. Per risalire la china, quindi, è necessario guardare oltre la crisi.
Il decreto approvato la settimana scorsa dal governo fa piccoli passi in questa direzione: il mantenimento dei lavoratori in azienda tramite corsi di formazione a salario pieno e la detassazione del 50% degli utili reinvestiti sono provvedimenti tesi a far ripartire l’economia reale. Ma si tratta di poca cosa in un’ottica di rilancio congiunturale, il decreto è «carente dal punto di vista di una strategia riformista» come ha sottolineato Francesco Forte sull’Occidentale di ieri.
Il ministro dell’Economia, in effetti, si sta muovendo con molta prudenza, preoccupato com’è per la tenuta dei conti pubblici. Giulio Tremonti ritiene che il momento sia troppo delicato per mettere mano alle riforme, ma questo atteggiamento rischia di sconfinare in un pericoloso attendismo. Serve più coraggio non solo nell’azione di governo, ma anche dalle parti sociali. È opportuno tornare a una politica dei redditi più indirizzata al rilancio dei consumi, attraverso un patto che attenui le distorsioni nella distribuzione della ricchezza tra percettori di stipendi, profitti, interessi e rendite. Bisogna aiutare chi ha una più alta propensione al consumo, cioè i meno abbienti. I benefici sarebbero per tutti.