Con l’Iran il “dialogo” è già fallito. Obama lo sa?
11 Aprile 2008
Il senatore Barack Obama vuole “dialogare” con i nostri nemici in Medio Oriente, Iran in primis. Non riesce a immaginare un happy end della guerra in corso senza “dialogo”. E sembra pure credere che questo sua idea sia qualcosa di nuovo, forse persino di rivoluzionario.
Ma non sa che non è affatto una novità, e ancor meno qualcosa di rivoluzionario. Quella che Obama propone è la stessa politica nei confronti dell’Iran che gli Stati Uniti hanno già abbondantemente sperimentato negli ultimi trent’anni, a partire dalla presa del potere dei mullah nel 1979. Di colloqui ce ne sono stati già molti, ad alto e medio livello, pubblici e privati, tenuti da diplomatici, agenti della Cia e da una variegata schiera d’intermediari, come l’ex premier spagnolo Felipe Gonzales, i nipoti di Rafsanjani, businessmen iraniano-americani, ex membri del National Security Council e della Cia, e altri ancora dalle credenziali più oscure.
Tutti hanno fallito. Come racconta Ken Pollack nel suo libro The Persian Puzzle, tutte le carote sono state offerte e tutti i bastoni sono stati impugnati. Le abbiamo provate tutte. Semplicemente gli iraniani non erano interessati. Mi ricorda quella grande scena di Goldfinger dove James Bond è a braccia e gambe aperte su una lastra d’oro e un raggio laser puntato alle parti intime.
«Aspetti che io parli, Goldfinger?» chiede James Bond. «No, Mr. Bond, aspetto la tua morte».
Questo è l’Iran. I mullah vogliono la nostra morte.
La via del “dialogo” è stata tentata da tutti i presidenti, da Jimmy Carter a George W. Bush, democratici o repubblicani, di sinistra o di destra, in momenti diversi. Perché il senatore Obama, e insieme a lui gli altri profeti del “dialogo” con i mullah, pensano di poter ottenere un risultato diverso? Un uomo sveglio una volta disse che pazzo è chi continua a fare la stessa cosa, sperando di ottenere un risultato diverso la volta successiva.
Benché con estrema lentezza, anche quanti cercano disperatamente di evitare una questione così seria (tra questi non ce n’è stato uno che abbia chiesto al generale Petraeus e all’ambasciatore Crocker cosa pensano si dovrebbe fare nei confronti di Tehran) cominciano senza dubbio a comprendere come il problema Iran sia ormai ineludibile. E questo perché i mullah ci hanno dichiarato guerra nel 1979 e da allora non fanno che ucciderci, ancor più oggi che sono penetrati anche in Iraq e in Afghanistan. Alla richiesta del congressman Wexler di spiegare per cosa stiamo combattendo in Iraq, il generale Petraeus ha fissato tre punti: stiamo combattendo per prevenire un possibile allargamento del conflitto su base settaria, un conflitto che ha paralizzato il paese e l’ha condotto sull’orlo della guerra civile; stiamo combattendo per la stabilità di una regione che è di vitale importanza per l’economia globale; stiamo combattendo contro le evidenti interferenze dell’Iran.
E’ da trent’anni che il “dialogo” si rivela fallimentare, ma l’ubris dei nostri leader supera di gran lunga il comune buon senso. Da Carter a W., ogni presidente ha sposato l’idea che l’accordo sarebbe stato a portata di mano se solo ci fossimo impegnati di più nel “dialogo”. E così abbiamo avuto le umilianti scuse di Bill Clinton e della Albright, l’adesione convinta di W. ai negoziati insieme ai nostri infrolliti alleati europei; l’invito al “dialogo” di vecchi esponenti governativi come Henry Kissinger, Jim Baker, Madeleine Albright e Brent Scowcroft. Ora è il turno del senatore Obama.
E’ solo in un modo che la proposta di Obama può essere considerata rivoluzionaria. Finora, tutti i presidenti hanno almeno preso tempo prima di abbracciare la cura del “dialogo”. Obama potrebbe essere il primo presidente a invocare la cura del “dialogo” prima di entrare alla Casa Bianca.
© National Review Online
Michael A. Ledeen è Freedom Scholar all’American Enterprise Institute.