Con Nuto Revelli riscopriamo l’Italia della Guerra e dei non protagonisti
05 Luglio 2009
Storico, memorialista, narratore. Ma anche, per dirla con parole sue, semplice “autodidatta”. Questo e molto altro è stato Nuto Revelli, lo scrittore piemontese che ha dedicato gran parte della vita all’incontro con gli “ultimi”. Per riscoprire un autore tanto eclettico, “l’Occidentale” ha intervistato Luisa Passerini, docente di Storia culturale all’Università di Torino, che ha conosciuto e frequentato personalmente quell’uomo “insieme brusco e profondamente mite”. Con lei ripercorriamo le tappe di una straordinaria avventura intellettuale, tra soldati al fronte e poveri contadini al cospetto della modernità.
Professoressa, come si è avvicinata a Nuto Revelli?
Mi avvicinai a Nuto Revelli – che già conoscevo alla lontana per altri suoi scritti e gesti – leggendo Il mondo dei vinti, la cui uscita, nel 1977, si situava in un momento del mio sviluppo intellettuale e professionale che andava in una direzione affine. Nella seconda metà degli anni Settanta, mi ero infatti appassionata alla storia orale, nella sua pratica e nei suoi aspetti teorici. Date le premesse da cui partivo, per me non fu facile venire a patti – se così posso dire – con l’opera di Revelli, che sovranamente valicava tutte le pastoie metodologiche e disciplinari. Io ero intenta a operare una sfida rispetto alla storiografia tradizionale, alla quale però rivendicavo il diritto di appartenenza sia della storia orale sia mia personale.
Lui, invece, era più lontano dalla storiografia tradizionale…
Ci volle del tempo e dell’esperienza perché potessi apprezzare il contributo di Revelli, così libero da condizionamenti, anche quelli che, come nel mio caso, permettevano – se adeguatamente sfidati – di raggiungere nuove frontiere, allargando i territori disciplinari esistenti. Revelli non aveva bisogno di dimostrare niente e non si lasciava irreggimentare da nessuno steccato; era scettico, e giustamente, anche verso la possibilità di essere classificato come storico orale, nonostante i suoi grandi contributi alla raccolta e all’elaborazione dell’oralità.
Lei ha conosciuto personalmente Revelli. Cosa ricorda del vostri incontri?
Ebbi la fortuna di conoscere Nuto Revelli di persona, in occasione di una serie di incontri che organizzammo, con altri amici e colleghi, all’Università e all’Istituto Gramsci di Torino, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Il contatto diretto con il suo modo di fare, che era insieme brusco e profondamente mite, mi fece comprendere molto dello spirito in cui si muoveva la sua opera. Lo rividi più volte, andando a trovarlo nella sua casa di Cuneo, intervistandolo, incontrandolo al Castello di Verduno dove passava le vacanze, e fui sempre colpita dalla mescolanza di estrema umanità – che lo rendeva così fine e simpatico – e di spregiudicatezza e di intransigenza, che caratterizzavano sia l’uomo sia l’intellettuale. Alcune opere successive, come Il disperso di Marburg e Il prete giusto confermarono queste impressioni.
Dalla Campagna di Russia alla lotta partigiana. Cosa ha rappresentato per lui la guerra?
Un aspetto fondamentale dell’atteggiamento di Nuto Revelli rispetto alla guerra, compresa quella partigiana, mi è rimasto profondamente impresso e ha ispirato la mia comprensione dell’atteggiamento che potremmo avere tutti, se ne fossimo capaci. E’ basato sulla convinzione che la violenza armata e organizzata si debba affrontare e anche praticare, quando è assolutamente necessario, compresi passi estremi come l’esecuzione di un nemico o di un traditore. Tuttavia queste decisioni devono costantemente poter contenere in se stesse il loro contrario, cioè non dare mai spazio al compiacimento per la violenza, ma anzi albergare sempre la consapevolezza del costo che comporta il metterla in atto. Si percepiva che questa consapevolezza aveva animato le azioni e i pensieri di Nuto Revelli, compreso il suo lavoro intellettuale.
Cosa lega il Revelli memorialista a quello narratore? Quale delle due forme di scrittura è più convincente?
Non credo si debba fare alcuna separazione tra le due forme di scrittura, e tanto meno ritengo che una sia più convincente dell’altra. Al contrario, stanno in rapporto di reciproca suggestione e si illuminano vicendevolmente. L’ispirazione di Revelli è sempre storica, sempre alla ricerca del senso di qualcosa che è accaduto, anche là dove resta misterioso, e nello stesso tempo la sua storicità è intessuta della capacità di narrare, che spazia dal registro orale a quello scritto.
L’altro grande tema di Revelli è quello del mondo contadino, alle prese con l’avvento dell’industrializzazione e della società di massa. Cosa l’ha spinto verso queste realtà?
Come egli stesso ebbe a dichiarare, Revelli considerò di aver terminato, con Mai tardi e La guerra dei poveri, il proprio discorso autobiografico, e di poter passare a raccogliere documenti sull’esperienza di coloro che avevano vissuto le stesse vicende in altro modo e con altro linguaggio, essendo contadini e operai, o soldati semplici invece che ufficiali. La spinta verso il passaggio da sé agli altri era già presente in precedenza, ma l’impulso, come Revelli raccontò in un’intervista, era stato rimandato per portare a termine il lavoro autobiografico.
Insomma, dopo aver parlato della propria esperienza l’autore ha sentito il bisogno di dare la voce agli “ultimi”…
Il passaggio da sé agli altri diventò una risposta al bisogno di far parlare quelli che altrimenti non avrebbero mai parlato. Nacque così una straordinaria combinazione di oralità e scrittura, che mostra una sostanziale continuità di ispirazione con le opere precedenti, ma anche una grande capacità di attenzione non solo verso gli aspetti arcaici, ma anche verso le forme di modernità presenti nel mondo contadino. Era il suo modo di renderlo attuale, di inserire quel mondo nella sfera pubblica contemporanea e denunciare l’ingiustizia del contesto complessivo.
Professoressa, lei è molto attenta allo studio delle fonti orali. Ci può raccontare come ha lavorato Revelli per costruire i due libri sul mondo contadino?
Ricordo bene l’incontro in cui Revelli stesso espose i suoi criteri per passare dalla testimonianza alla scrittura per quanto riguardava quei due libri. Il presupposto era un’intervista condotta con tutto il rispetto delle forme di relazione tra le persone, anche nella ritualità, che tuttavia lasciava lo spazio necessario a uno scambio sincero e talvolta confidenziale, anche con le donne. Non sempre Revelli usò il registratore, ma ammise francamente di aver sbagliato e lo riconobbe come strumento prezioso. Quello che accadeva dopo aver ottenuto la testimonianza era un lungo lavoro di limatura e traduzione. Faceva sempre molta attenzione, ci disse, a non tagliare pezzi che fossero essenziali per l’interezza della persona, come se si fosse trattato di tagliare un braccio o una gamba.
Un lavoro molto delicato…
Era un lavoro lunghissimo, con ripensamenti, tentativi, correzioni, che infine approdava a un risultato contemporaneamente molto fedele e molto innovativo, che produceva un terzo registro rispetto all’oralità e alla scrittura, caratterizzato tra l’altro dalla presenza costante del dialogo e dalla molteplicità linguistica. In particolare L’anello forte apre nuove prospettive per una comprensione della narratività differenziata sulla base del genere e della generazione, dato che in esso sono presenti testimonianze di donne di età diversissima e di svariate origini geografico-culturali. Nel complesso, entrambi i testi mostrano all’opera un’attiva intersoggettività tra l’autore e i suoi testimoni.
Un’ultima domanda. Revelli ha affermato che per i giovani d’oggi è impensabile svolgere ricerche come quelle da lui compiute in Piemonte e Calabria: servono tempo, pazienza e sicurezza economica. È d’accordo con lui? Ci sono state altre ricerche di questo tipo?
Non credo ci siano ricerche davvero paragonabili alla sua nell’ampiezza e nella qualità, ma credo ci siano molte ricerche che riprendono quello spirito e seguono almeno per un tratto l’esempio dato da Revelli, a loro volta proponendo una propria ispirazione e una specifica intersoggettività. Mi basti citare le tesi di laurea, condotte con passione e partecipazione, che documentano con ricchezza e precisione la vita di villaggi, gruppi sociali, individui, e costituiscono contributi preziosi, anche se restano poco conosciuti, a un filone di ricerca come quello della storia orale.