Con Régis Debray la sinistra riscopre il valore delle frontiere fra i popoli

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Con Régis Debray la sinistra riscopre il valore delle frontiere fra i popoli

24 Gennaio 2011

C’erano una volta le frontiere. Poi si è detto che lo sviluppo dei valori universali dell’uomo e del suo sapere avrebbe eliminato le barriere, i confini. C’ è stata la mondializzazione dell’economia e dell’informazione; miliardi di persone hanno cominciato a spostarsi dappertutto e in maniera sempre più veloce. I progressisti, nel tempo, sono sempre stati per il superamento dei confini; i conservatori per il loro mantenimento.

In Francia la sinistra intellettuale è in fermento. Una conferenza a Tokyo di un suo prestigioso  esponente, Régis Debray (amico di Fidel Castro e del Che negli anni Sessanta, poi di Mitterand e infine professore di filosofia a Parigi), si è trasformata in un volumetto “Eloge des frontières”. Cosa dice Debray? Considerazioni antropologiche, storiche e filosofiche a parte, l’autore sostiene che le frontiere sono le uniche a poter garantire la pace e un corretto sviluppo delle relazioni tra i popoli; alla condizione essenziale che esse rappresentino delle porte aperte, non inchiavardate, in entrata e in uscita; ma delle porte, non dei muri o reticolati, che producono l’effetto opposto, ossia la non conoscenza e il non riconoscimento  degli “altri” e quindi tensioni e guerre.

Le frontiere sono anche l’unica garanzia per la valorizzazione della storia e della cultura dei popoli, in un mondo sempre più multicolore, multietnico e multinazionale. Le comunità peraltro esistono solo se hanno dei confini, che, con la loro stessa  esistenza, generano la politica, le politiche. La frontiera “d’aria”, quella non fisica, indeterminata sul territorio, è una linea astratta che, quando vuol separare, premia solo i più forti. La linea d’aria dei villaggi planetari in sostanza tende a creare unicamente ghetti di violenza. “Un Paese, come un individuo, possono morire in due maniere; o asfissiati tra i muri o spazzati via da correnti d’aria”.

Le frontiere quindi sono belle; e a varcarle ancora si provano i brividi; brividi nel rientrare a casa propria e brividi nell’andare in casa altrui ; bisogna solo avere la coscienza fisica che si stanno varcando delle soglie. E poi che la mondializzazione stia eliminando le frontiere non è vero: negli ultimi 20 anni sono stati costruiti 26 mila km di nuove frontiere e 10 mila km di muri e fili spinati sono attualmente in corso di realizzazione; negli ultimi due anni ci sono state ben 26 guerre frontaliere. E ancora: “…che sia utile mettere il  mondo in rete non significa che si possa abitare questa rete come un mondo”, anche  la rete insomma è un attrezzo, non un luogo.

Queste le idee di Débray.  Forse che questo raffinato intellettuale d’oltralpe (se pur con passati guerriglieri andini ) se la intende con il nostro ruspante e prosaico Bossi? In un certo senso sì; e il fatto curioso è che nei dibattiti politico culturali sul libro di Débray è difficile trovare qualcuno che non sia d’accordo con lui, qualcuno mondialista o internazionalista; la stessa Europa è messa a dura prova in questi dibattiti. E non parliamo di quello che fu l’internazionalismo socialista!

Non sono contro le sue tesi neppure quelli delle varie associazioni “sans frontières”, che lui sbeffeggia un po’, elencandole, dagli avvocati ai veterinari. Brauman, prestigioso Presidente emerito di Medecins sans frontières, per esempio, sostiene con Debray che i loro medici devono passare le frontiere e sapere di lavorare in casa altrui, senza protezione alcuna di Governi o organizzazioni internazionali. Anche lui confessa di amare il brivido della soglia di una frontiera, con sbarra e passaporto.