Con “Wehrmacht” la Germania sconta ancora la sua colpa collettiva
21 Marzo 2010
di Vito Punzi
Non sappiamo se l’attributo “televisivo” alla qualifica di “storico” sia qualcosa di cui potersi vantare. Guido Knopp passa per essere, appunto, lo “storico televisivo” tedesco per eccellenza, del canale ZDF in particolare, e ormai da ventisei anni. Qualcuno dice essere anche di successo, oltre che scientificamente attendibile. Con buon seguito in Italia, perfino, visto che l’editore Corbaccio continua, senza dubbi apparenti, a sfornare le versioni nostrane dei volumi che Knopp pubblica puntualmente al termine delle sue serie televisive. In Germania, in realtà, il suo calcare la mano, al di là dei documenti a disposizione, su quel senso di colpa collettivo eretto dal “politically correct” a fondamento dell’attuale democrazia convince sempre meno. E trova sempre meno tedeschi pronti a seguirne passivamente le ricostruzioni storiche, non di rado mistificatorie, da lui curate.
Così è stato, per esempio, con Die Wehrmacht – Eine Bilanz, una serie andata in onda nel 2007 diventata ora libro a disposizione del lettore italiano con il titolo Wehrmacht e con l’evidente forzatura del sottotitolo: La macchina da guerra del Terzo Reich (Corbaccio 2010, p. 329, € 24,00). Le cronache ricordano che tre anni fa gran parte del pubblico tedesco snobbò quella serie, stanco evidentemente del suo modo di fare e della sua finalità (l’evocazione dello spettro nazista): nei picchi d’ascolto gli spettatori non furono più di 3,5 milioni (10,7% di ascolto in meno rispetto alla media per il canale ZDF). Insomma un disastro.
Non da meno pare essere la sua credibilità scientifica. Puntando l’attenzione sulla Wehrmacht, Knopp cerca di dimostrare com’esso, da esercito prussiano fortemente elitario qual è stato fino al 1935, si sia lasciato trasformare rapidamente da Hitler in strumento politico al servizio incondizionato della causa nazista fino alle estreme conseguenze. In sostanza, senza tenere conto della grande “varietà umana” che dovette ingrossare le fila di un esercito che arrivò a contare fino a 18 milioni di uomini, Knopp finisce col porre l’intera Wehrmacht, senza distinzioni significative, sullo stesso piano delle Schutz Staffeln, la guardia personale di Hitler. L’equazione è fin troppo facile: se quella delle SS era un’organizzazione criminale, altrettanto dev’essere stato l’esercito.
Contro quest’equiparazione, quando andò in onda la serie televisiva, si scagliò l’ottantaquattrenne giurista Hans Georg Hess, durante la guerra comandante dell’U-Boot 995. Appellandosi all’avvocatura di Stato di Mainz, Hess denunciava “l’offesa alla dignità umana di una parte della popolazione tedesca, alla memoria dei caduti al servizio dell’esercito”, e “la criminalizzazione di un’intera parte del popolo tedesco”. La sua rimostranza non ottenne alcun effetto e piuttosto venne definita “infondata”. L’amaro commento del vecchio comandante di sommergibile è stato che “se questi appunti fossero giunti da sinistra e fossero indirizzati contro uno storico conservatore l’avvocatura di Stato avrebbe inoltrato sollecitamente il procedimento istruttorio”.
Insomma, possibile che ancor oggi certa Germania non trovi altro su cui fondare la propria esistenza che non sia il mito della colpa collettiva?