Confesso che voto Trump

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Confesso che voto Trump

07 Marzo 2016

In America non si era mai vista una cosa del genere, se non ai tempi di Teddy Roosevelt che abbandonò polemicamente i repubblicani all’inizio del secolo scorso. Un intero partito che si rivolta contro il suo candidato favorito: Donald Trump. Agli sfidanti che gli sbarrano la strada dopo la mazzata presa al "Super Martedì" elettorale, Cruz e Rubio, si aggiungono altri pesi massimi dell’Elefantino come Mitt Romney, che perse contro Obama nella corsa alla Casa Bianca. Nasce un nuovo "Super PAC", supercomitato elettorale messo in piedi all’ultimo secondo per lanciare Paul Ryan, attuale speaker repubblicano della Camera e aspirante vicepresidente nel 2012 con Romney. Per non dire della stampa d’area, in testa l’influente rivista conservatrice National Review che conia l’hashtag #NeverTrump. 

 

L’intero establishment politico-culturale repubblicano sta disperatamente facendo terra bruciata intorno al “Don” ma, avverte il sempre ben informato Charles Krauthammer, ormai è troppo tardi. Quando va bene gli dicono che la sua visione protezionistica dell’economia getterà sul lastrico l’America, che aprendo a Planned Parenthood – l’organizzazione per la genitorialità pianificata – ha tradito i valori della base evangelica, che sarebbe impossibile costringere il Messico a pagare per la costruzione di un muro al confine con gli Usa che tenga fuori i clandestini. Gli ricordano che usare le forze speciali per dare la caccia alle famiglie dei terroristi si chiama crimine di guerra. Quando va male lo offendono, sei trash, un testone, un pagliaccio, hai frodato il fisco con la tua università privata, hai le mani di uno che ce l’ha piccolo (copyright Rubio), sei un pazzo scatenato che rischia di scardinare il sistema politico. Un ritratto che anticipa, vedrete, la strategia di Hillary Clinton: cari americani, dareste mai la valigetta nucleare a un comandante in capo così? Beh, se a dirlo è lo stratega della Libia, Donald ha più di qualche chance.

 

Ce l’ha perché in America come in Europa sta succedendo qualcosa. Lo abbiamo visto accadere in Spagna, in Francia, sta accadendo in Italia. La gente ne ha le scatole piene di sentirsi dire che siamo usciti dalla crisi, che bisogna essere solidali e integrare chi è violento e se ne frega dell’integrazione, che il pericolo è Putin mentre la Cina, l’Iran e i sauditi sono i nostri grandi amici. La gente che vota per Trump sa benissimo che sul palco c’è il primo dei furbacchioni, che bellicapelli non farà neppure un centesimo di quello che va sparando a destra e a manca se mai entrasse nello Studio Ovale. Lo dimostrano il discorso moderato tenuto da Trump subito dopo la schiacciante vittoria alle primarie della settimana scorsa e le rettifiche continue su immigrazione, siriani, tortura, l’armamentario dello showman, anzi, dello stuntman, che fa impazzire il pubblico perché Trump sembra uno di noi, cade e si rialza, e sai che c’è, chi se ne importa se è miliardario, diventare ricchi è sempre stato lo standard americano.

 

Lo guardano, lo votano alle primarie e pensano: che succederebbe se uno di noi varcasse la soglia della Casa Bianca? Se “il sistema” esplodesse veramente? C’è un’America rivoluzionaria che negli ultimi anni ha già dato scosse potenti al Paese, un’America che Obama non rappresenta, un popolo che  ha dannatamente voglia di abbattere il “castello di carte” del potere per ricominciare da capo, da zero. Donald Trump, ha detto Briatore, è il Lancillotto della classe media infelice e della working class incazzata nera. Più che un populista, rischia di essere ricordato come un eroe.