Conoscere Simenon sarà l’ultimo caso del Commissario Maigret
31 Maggio 2009
Molti di coloro che hanno avuto modo di avvicinarsi all’immenso mondo letterario di Georges Simenon sono soliti distinguerlo in due grandi categorie: quella concernente i “romanzi veri” e quella relativa, invece, alle “inchieste del Commissario Maigret” (troppo spesso definite addirittura “gialli”).
In realtà, a parte l’apparente efficacia di tale empirica differenziazione, deve osservarsi come, se proprio si volesse procedere ad una grossolana catalogazione delle centinaia di migliaia di pagine scritte dal romanziere belga, si dovrebbero distinguere i racconti, le novelle, gli articoli e gli scritti in generale dai “romanzi” e, tutti, dai “romanzi-romanzi” (questi ultimi definiti dallo stesso autore romans durs ovvero hard novels). Nei primi lavori possono ricomprendersi anche i “romanzi rosa”, se non addirittura “scabrosi”, parte integrante di quella (dallo stesso autore indicata) “letteratura alimentare” destinata, nei primi anni giovanili, a soddisfare le più elementari esigenze e necessità del vivere umano.
Ma è certamente tra i “romanzi” che possono essere annoverati i “Maigret” (soprattutto i 78 titoli non pubblicati nelle svariate raccolte come “racconti”).
Già lo stesso Simenon, infatti, probabilmente non intese realizzare una collana autonoma di scritti relativa alle indagini dirette dal Commissario parigino, almeno nella dimensione poi prodotta in realtà.
Basti pensare come, da un punto di vista “formale”, il Commissario Maigret già figuri in quattro romanzi, pubblicati tra il 1930 ed il 1932, sotto due diversi pseudonimi. Gli stessi, già indicati come “romanzi”, non sono mai citati nell’elenco delle 104 “opere ufficiali” relative alle “inchieste”, firmate con il nome per intero, e risultano troppo spesso dimenticati.
Inoltre nel titolo delle prime diciotto cosiddette “inchieste”, pubblicate tra il 1931 ed il 1934, non inspiegabilmente viene omessa l’indicazione del cognome del corpulento Commissario ed il diciannovesimo (meglio conosciuto in Italia come “Maigret ed il nipote ingenuo”), invece, si intitola in modo assai eloquente solo “Maigret” e vede il celebre Commissario, ormai cinquantacinquenne, già in pensione.
Lo scrittore, quindi, dopo aver annunciato al suo storico editore Fayard di chiudere definitivamente la “saga Maigret”, solo di fatto realizzata, fu costretto personalmente a “riassumere in servizio” il suo eroe, per evidenti esigenze editoriali, così violando ogni principio di continuità narrativa ed in spregio all’inesorabile legge del decorso del tempo.
Sotto un profilo sostanziale, invece, non si può certo dire che Maigret rappresenti un personaggio diverso (ed autonomo) rispetto a molti dei protagonisti dei romanzi di Simenon.
Il romanziere scrive (tranne eccezioni imposte dalla struttura del testo: come nello struggente “Il figlio” o nel celeberrimo “Lettera al mio giudice”) in terza persona, ne sa esattamente quanto i suoi “uomini”, vede la realtà attraverso i loro occhi; egli (proprio come i suoi personaggi) non sa né dove sta andando la storia, né ne conosce, a maggior ragione, l’epilogo. E’ il protagonista che lo porta, attraverso le sue sensazioni, i suoi umori e – soprattutto – le sue reazioni agli umani accadimenti, all’esito (spesso drammatico) della vicenda; sono gli interpreti che gli consentono di andare avanti nella narrazione: egli quasi la subisce, non la crea.
E’ plausibile che, allorquando Simenon dedica i propri sforzi letterari a vicende collocate in un ambiente criminale ed assegna ad un funzionario di polizia la conduzione delle indagini finalizzate alla soluzione del caso, non possa non affidarne anche il compito di portare se stesso (e di condurre il lettore) alla conclusione della vicenda ed alla definizione dell’inchiesta.
Ecco perchè Maigret non indaga nel senso tradizionale del termine; non coltiva un metodo scientifico che, per induzione, attraverso la valutazione delle prove e degli indizi ufficialmente acquisiti, mediante la lettura dei verbali e delle carte processuali, lo possa condurre a chiudere l’indagine e giungere alla soluzione dell’enigma.
Egli va per le strade, entra nelle case, si insinua nelle portinerie, sale le scale, scruta anditi e pianerottoli, frequenta bistrot, sale sugli autobus (sostando invariabilmente sulla piattaforma per fumare la sua adorata pipa), beve, mangia (sia pur non con le “disinvolte” modalità che l’immenso Gino Cervi ci ha fatto conoscere negli sceneggiati televisivi della RAI) “vive” insomma con l’indagine, e “vive” la stessa e nella stessa, “assorbendo” odori, rumori, colori, come se fosse una “spugna” umana, intuendo reazioni, cogliendo stati d’animo, facendosi sorprendere dalle stesse proprie sensazioni e impressioni, cercando di penetrare nei labirinti della mente umana, tentando di percepire i meccanismi dell’animo e di comprenderne le cause, così giungendo infine – per logica deduzione – alla soluzione del problema.
Egli, coltivando apparentemente il “metodo Maigret”, in realtà interpreta alla perfezione il “metodo Simenon”.
Ma cos’ha allora il nostro poliziotto di diverso rispetto a molti altri personaggi pure “utilizzati” da Simenon in quelli che molti chiamano “gli altri romanzi”?
Maigret riesce con successo a difendere sé stesso e a salvare il proprio posto di lavoro (Maigret se defend) intuendo la soluzione del caso, solo guardando la strada e scrutando l’interno di un appartamento privato da una finestra di una casa di fronte, con un atteggiamento voyeuristico proprio di alcuni personaggi di “romanzi diversi” (Dominique Salès ne “La finestra dei Rouet”, il console Adil bey ne “Le finestre di fronte”).
Spesso nei “Maigret” la trama si sviluppa attraverso le conversazioni, apparentemente banali, degli avventori di bar e locande colte per caso dal Commissario, che dalle stesse ricava soluzioni decisive; proprio come ne “Il Trasloco” in cui le violente discussioni di due giovani coniugi, ascoltate dal povero Emile attraverso la parete della sua camera da letto, e da lui stesso elaborate, determinano lo snodo e la tragica conclusione della vicenda.
D’altro canto sono solo i pensieri e le impressioni (superbamente rappresentati attraverso il “filtro” dell’autore) del protagonista del grandioso “romanzo-romanzo” “Piano Inclinato”, un piccolo ed infelice borghese, a farci comprendere, nelle prime pagine, che egli è un prestigiatore, si trova in uno squallido teatro, sta interpretando un numero di magia, e vive, con un’angoscia invincibile (perché inutilmente combattuta con la bottiglia), una vita matrimoniale devastante; lo scrittore non indulge in alcuna operazione descrittiva e, tanto meno, valutativa: ci rappresenta solo ciò che vede e “sente” Antoine.
Comprendere e non giudicare, capire e non condannare (sia pur non perdonando in maniera assoluta ed aprioristica) è lo spirito che anima Simenon. Egli sosteneva come gli uomini fossero troppo deboli e disarmati perché se ne potesse pretendere la infallibilità.
E allora ciò che Maigret coglie, non è forse la stessa realtà percepita da tanti altri personaggi simenoniani? E le sue conclusioni (la giustizia, se esiste, è di un altro mondo; su questa terra vige, eventualmente, solo la legge) non sono le medesime cui giungono, all’esito di analoghi (perché diversi solo apparentemente, in quanto non identici da un punto di vista tecnico) ragionamenti deduttivi, tanti altri protagonisti dei romanzi di Simenon costretti ad accettare passivamente le umane ingiustizie e a subire inermi le odiose cattiverie?