
Consulta sul caso Cappato: doppio fallimento e grande sconfitta

28 Settembre 2019
A dispetto di ogni considerazione giuridica (aspettiamo di avere le motivazioni della sentenza) o etica sul tema del fine vita c’è una questione politica e di sistema al fondo della decisione della Corte costituzionale sul caso Cappato: un doppio fallimento, triste e sconsiderato.
Nonostante la Consulta abbia saggiamente ritenuto che su un argomento tanto delicato e divisivo fosse necessario coinvolgere il Parlamento e la Politica, dargli del tempo per assicurare una copertura legislativa alla questione, cercare di trovare nelle sedi opportune (le aule di Montecitorio e palazzo Madama) la soluzione più condivisa al fine di contemperare posizioni distanti e tendenze in profondo contrasto, nulla è stato fatto!
Con l’esclusione di poche ardite voci (più fuori che dentro i palazzi), mai dopo l’ordinanza n. 272 del 2018 il fine vita e le possibili conseguenze di una eventuale decisione della Consulta sul tema sono state realmente al centro del dibattito politico, pur nella consapevolezza di una scadenza così dirompente. E chiariamoci: qui non è che non si è trovata una quadra tra idee opposte, non si è proprio iniziato a cercarla.
Perché?
Per la terrificante vocazione della Politica di questa nostra epoca al galleggiamento impudente. Viviamo il tempo degli uomini forti con idee deboli. Anzi, troppo spesso, con null’altro da offrire se non mere suggestioni. Se la Politica vuole essere centrale deve per prima dettare priorità. Per dettare priorità deve avere una chiara ed organica visione del mondo. Per avere una chiara ed organica visione del mondo bisogna che gli uomini esercitino lo spirito al coraggio di compiere delle scelte.
Ed in questo un supporto dovrebbe pur arrivare dagli altri grandi sconfitti di questa giornata, i cattolici impegnati in politica. Perché, pur se qualcuno predica doveri evangelici verso i migranti ed altri invitano ad una nuova attenzione verso il Rosario, pochi, anzi pochissimi, tra i parlamentari che rivendicano una forte appartenenza religiosa hanno provato a dire “qualcosa di cristiano” sull’argomento. Troppo pochi i parlamentari (felice eccezione chi ha parlato da questo giornale) che hanno provato a dire che una comunità non può rinunciare a dare ad ogni vita la sua dignità e mai può pensare di rendere lecita e legale la rassegnazione e l’abbandono.
Con la decisione della Corte costituzionale (pur certo giuridicamente prudente) è stata segnata la più grande sconfitta civile del sentimento cattolico nella nostra Nazione negli ultimi quarant’anni. E sempre con questa decisione si è palesata nella maniera più cruda l’impotenza e la subalternità della politica in questo Paese; inadeguata forse alle sfide di questo tempo, anche se specchio di una società spesso non migliore.
Se è vero che il mondo ha bisogno di tuffarsi nel caos per rinovellarsi ogni volta, forse è il momento questo di suscitare un nuovo inizio. Cominciamo allora a ragionare con dedizione su come il Parlamento potrà leggere ed animare a livello legislativo i principi della Corte: bisognerà pur farlo! Ben si deve costruire un muro legale di garanzia che circoscriva all’eccezionalità l’ipotesi prospettata dalla Corte, leggendo in maniera restrittiva le condizioni dettate dai giudici per la non punibilità dell’articolo 580 c.p.
Cosa si deve intendere per “agevolazione” al suicidio? In che termini si può parlare di “piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli”? Soprattutto, ha senso valutare l’intollerabilità di una condizione di malattia irreversibile in termini totalmente soggettivi? Un apporto importante a questo lavoro lo daranno le motivazioni della Corte, ma certo l’urgenza del legislatore deve essere quella di non trasformare l’apertura pur ragionata della Consulta in una falla o ancor peggio in una voragine.