Continuare a respingere le riforme è un vizio autolesionistico tutto italiano

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Continuare a respingere le riforme è un vizio autolesionistico tutto italiano

26 Novembre 2010

Ne sono state dette tante, negli anni, sul modo di governare del centro destra italiano. Gli esecutivi presieduti da Silvio Berlusconi sono stati criticati perché approssimativi, indolenti, privi di visione strategica. Per parte sua, il Cavaliere ha sempre risposto agli appunti rinviando la palla nel campo delle tradizioni politiche nazionali: l’ostilità ideologica e preconcetta dei settori più militanti della società civile, intenti a difendere le proprie rendite di posizione; il troppo intricato sistema di contrappesi architettato da una costituzione scritta per un’altra Italia; il «teatrino della politica», in cui le questioni sono valutate non per il loro merito intrinseco ma unicamente per il loro valore tattico.

Bene: se qualcuno avesse voluto architettare un marchingegno per dare ragione a Berlusconi, difficilmente avrebbe potuto immaginarne uno migliore dell’opposizione alla riforma universitaria. Che dentro il parlamento, complice anche il conclamato stato preagonico della maggioranza, persegue obiettivi politici largamente indipendenti dal merito del disegno di legge. E nelle piazze esibisce un più che evidente carattere ideologico, oltre che troppo spesso violento: il carattere del no a priori, dato per ragioni sedicenti progressiste, ma in realtà funzionale alla conservazione dello statu quo e degli interessi non sempre virtuosi che vi si annidano.

Come tutto ciò che appartiene a questo mondo, il decreto Gelmini è ben lontano dall’essere perfetto. Se però avessero la meglio i suoi oppositori – sia detto senza ambiguità – il sistema universitario italiano ne avrebbe un danno gravissimo, e con esso il paese. Innanzitutto, perché in questo caso lo statu quo non è affatto esaltante. Sia chiaro: l’università italiana non è tutta da buttare; gli indicatori internazionali che la maltrattano non possono essere ignorati, ma neppure considerati verità rivelata; e sui cosiddetti «baroni» vi sono state molte denunce fondate e documentate, ma anche un diluvio di demagogia. Negli Atenei del nostro paese c’è tanta gente che fa seriamente il proprio lavoro; ci sono eccellenze; e fino a quando non è scoppiata la peggiore crisi economica mondiale dal 1929 a questa parte c’è stato anche spazio – poco, ma c’è stato – per i giovani bravi.

Quello che però nell’università italiana manca è proprio un meccanismo che premi i buoni e punisca i cattivi. Certo, lo sappiamo quanto arbitrari rischino di essere questi meccanismi. Tutti abbiamo a cuore la libertà dell’insegnamento e della ricerca. Chi lavora nell’università è consapevole di come la produttività in un Ateneo non possa misurarsi allo stesso modo che in un’impresa siderurgica. E chi abbia dedicato la propria vita alla ricerca cosiddetta «di base», quella che non produce benefici immediati e tangibili, sa perfino che l’università è giusto che sia, almeno in una certa misura, sottratta alle pressioni dell’ambiente esterno. Tutto ciò, però, non può implicare che un settore cruciale per la vita del paese sia esentato dal rendere conto di come sta usando le risorse pubbliche.

È esattamente questo il passaggio più importante del ddl Gelmini: l’attività delle università italiane sarà valutata, e tanto gli Atenei quanto i singoli docenti riceveranno più o meno risorse a seconda del loro comportamento. Non fa abbastanza in questa direzione, il provvedimento, perché agli incentivi dedica solo il sette per cento delle risorse complessive? Certamente. Ma il «benaltrismo», il tipico meccanismo italiano stando al quale le riforme andrebbero respinte perché «ben altro» ci vorrebbe, è e resta un riflesso autolesionistico: è da perfetti idioti rifiutare di muovere un passo sia pur breve nella direzione giusta, reclamandone uno più lungo che chissà quando mai sarà possibile.

Nel ddl Gelmini, poi, c’è molto altro di positivo: la riforma e moralizzazione della governance degli atenei; semplificazioni e accorpamenti che li rendano più semplici e agili; il taglio di molti rami secchi. Infine, la legge di stabilità in approvazione entro la metà di dicembre assegna all’università un miliardo di euro. Rispondendo così alle preoccupazioni fondate di chi sottolineava la sofferenza grave degli atenei, e quanto difficile sarebbe stato realizzare una riforma così profonda con risorse insufficienti.

Il passo, dunque, è nella direzione giusta. I soldi ci sono. Come reagisce la solita parte militante, tanto chiassosa quanto minoritaria, del mondo studentesco? Occupando, sfasciando, paralizzando le città, al grido di slogan ideologicamente vetusti, oltre che sconnessi dal contenuto di una riforma evidentemente ignota, quali «Nessun profitto sul nostro futuro» o «Né manager né baroni, i privati fuori dai maroni». Come reagiscono le parti sociali? Il nuovo leader della Cgil Camusso «inorridisce» perché il ministro nota – e come darle torto? – che schierandosi con lo statu quo gli studenti stanno difendendo l’università baronale. Come reagisce l’opposizione parlamentare? Il Pd ammicca alla protesta studentesca. E i finiani di Futuro e libertà ritardano l’iter del ddl presentando emendamenti di scarso rilievo per far vedere che senza di loro non c’è maggioranza.

Bravissimi, tutti. Come al solito, più l’antiberlusconismo è radicale, più finisce per fare il gioco del Cavaliere.