Contrattazione: perché l’intesa raggiunta dalla Triplice non convince
26 Maggio 2008
Avrà un futuro l’intesa raggiunta da Cgil, Cisl e Uil sulle "Linee di riforma della struttura della contrattazione"? La levata di scudi della Fiom creerà, sicuramente, parecchi problemi durante la consultazione dei lavoratori e nei confronti delle controparti, le quali si chiederanno legittimamente se un’eventuale intesa con le confederazioni sarà ritenuta valida anche dai metalmeccanici.
E’ assai discutibile, comunque, che si tratti di un progetto innovativo, adeguato alle esigenze del sistema delle imprese e dei lavoratori. In verità, ad essere rafforzato e potenziato è il livello nazionale che svolge addirittura la funzione di "centro regolatore" per la definizione delle competenze da affidare al secondo livello, fino a prevedere persino che "la contrattazione salariale …si sviluppi a partire da una quota fissata dagli stessi CCNL".
Sono previsti, poi, alcuni vincoli che possono entrare in conflitto con le più recenti tendenze dell’organizzazione della produzione e del lavoro come gli appalti, gli outsourcing, le cessioni di azienda. Per queste forme vanno definiti – suggerisce l’intesa – accordi e norme quadro per garantire condizioni normative, salariali e di sicurezza in grado di arginare il fenomeno del dumping contrattuale "in particolare con la piena utilizzazione della ‘clausola sociale’". Al contratto nazionale resta affidato il compito di adeguare periodicamente il salario al costo della vita. Desta però qualche interrogativo l’adozione del criterio della "inflazione realisticamente prevedibile", (unitamente al superamento del c.d. biennio economico).
Si rinuncia, così, ad uno dei capisaldi del protocollo del 1993, laddove il riferimento all’inflazione programmata (salvo eventuale conguaglio successivo) era finalizzato a contenere l’incremento, giocando d’anticipo. Il suddetto indicatore, peraltro, non costituiva una camicia di forza per le retribuzioni dei lavoratori, ma un tentativo – non sempre riuscito – di difendere il loro potere d’acquisto.
Il nuovo concetto di "inflazione realisticamente prevedibile", rischia, invece, di trasformarsi in una "scala mobile", travestita e priva di ambizioni rispetto alla politica economica del Paese. Ciò detto per il livello nazionale (va incoraggiato il proposito di accorpare i contratti, ora in numero di oltre 400), alle modifiche proposte per la contrattazione decentrata non è attribuibile un percorso di rafforzamento.
In tema di regole della rappresentanza è prevista una sorta di certificazione da parte del Cnel. I nuovi compiti affidati al Consiglio di Villa Lubin rischiano di prefigurare un percorso diverso dai criteri previsti dall’articolo 39 Cost.: una norma inapplicata e desueta, ma tuttora in vigore.
Nel paese, poi, è aperto un altro problema ben più significativo di quello attinente all’actio finium regundorum tra la contrattazione centrale e quella decentrata. La questione è stata individuata – autorevolmente – da Il Sole 24 Ore, il quale ha calcolato come e in che misura una contrattazione uniforme a livello nazionale favorisca il Sud, grazie al differenziale del costo della vita (rispetto a quello più elevato delle regioni settentrionali).
Per uscire da questo cul de sac, che genera solo lavoro sommerso, occorre mettere in discussione (si veda l’editoriale pienamente condivisibile di Guido Tabellini su Il Solo 24 Ore di domenica 11 maggio) il principio della inderogabilità (il suo superamento è all’ordine del giorno in tutta Europa) delle norme contrattuali in forza del quale due livelli di negoziazione continuano ad essere contemplati, da noi, in una prospettiva aggiuntiva (l’intesa intersindacale usa l’aggettivo ‘accrescitiva’) e di progressivo miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro.
In Germania, ad esempio, questa ricerca si è concretizzata nella introduzione delle “clausole di apertura” (applicate nel 35 per cento delle aziende e nel 22 per cento degli uffici) che consentono di scendere al di sotto degli standard previsti dai contratti collettivi (è frequente la prassi delle retribuzioni agganciate agli utili). Anche in Italia, nel 1997, la Commissione presieduta da Gino Giugni studiò – per incarico del primo Governo Prodi – il problema della riforma della contrattazione (ne facevano parte sia Massimo D’Antona che Marco Biagi) e arrivò a prefigurare un’ipotesi derogatoria incentrata sulle “clausole d’uscita” rispetto a quanto definito dalla contrattazione nazionale.
Si tratta di un’esigenza tuttora valida (già recepita nella contrattazione del settore chimico) e divenuta più pressante in un ordinamento federalista e a fronte dei problemi di sviluppo del Mezzogiorno, le cui realtà produttive non sono in grado di "sostenere" una regolazione del lavoro sostanzialmente e forzatamente uniforme.