Contro Berlusconi meno soldi alla cultura

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Contro Berlusconi meno soldi alla cultura

15 Maggio 2007

Ci sono tante cose da dire sul conflitto di interessi. Partiamo dalla più paradossale. E cioè che gli oneri della nuova legge saranno coperti in parte (in buona parte) con i fondi a disposizione dei ministeri dei Beni Culturali, dell’Università e della Ricerca. Che significa? Molto semplice: il governo prende una bella somma di euro già destinata a musei, mostre, atenei, dottorati, studi scientifici, e la sacrifica sull’altare dell’anti-berlusconismo. Ecco le cifre: la nuova norma che punta a estromettere Silvio Berlusconi da future esperienze di governo (o che comunque lo costringerebbe ad affidare le sue aziende a terzi secondo l’istituto del blind trust) richiede una copertura finanziaria complessiva di cinque milioni di euro l’anno.

Per raggiungere questa somma nel 2007, verranno attinti 30mila euro dall’accantonamento relativo al ministero dei Beni e delle attività culturali e 399mila euro dal budget del ministero dell’Università e della ricerca (e chissà se la senatrice Rita Levi Montalcini avrà qualcosa da ridire o se voterà la legge per spirito di coalizione). Nel 2008, invece, il dicastero di Francesco Rutelli concorrerà con un bel milione tondo di euro (mentre i restanti 4 saranno “gentilmente offerti” dal ministero della Solidarietà sociale, alla faccia del belle chiacchiere sul Welfare). Nel 2009, infine, i Beni culturali ci metteranno ben due milioni di euro dei propri fondi. A conti fatti, sradicare il Cavaliere dalla politica italiana costerà al mondo della cultura quasi tre milioni e mezzo di euro. Neanche poco per un settore che, ogni anno al termine della sessione di bilancio, lamenta sempre più lo scarso impegno di fondi statali. Stamattina intanto è cominciata la discussione generale alla Camera dei Deputati. Intervenendo in aula per illustrare il provvedimento, il relatore Luciano Violante (Ds) ha aperto a possibili modifiche sottolineando che «il testo non è intoccabile» e che il suo auspicio sarebbe «una larghissima maggioranza» a Montecitorio. Non è così facile. L’opposizione sta affilando tutte le armi ostruzionistiche. Già da domani, infatti, la Camera sarà chiamata a votare le pregiudiziali di incostituzionalità sul conflitto di interesse, strumento regolamentare usato ogni qualvolta si vuole allungare il brodo della discussione. Comincerà poi l’esame e il voto degli emendamenti con tempi contingentati.

Insomma sarà dura battaglia. Le parti più conteste della legge sono l’articolo 7, quello che prevede il blind trust – cioè l’amministrazione affidata a un terzo deciso dall’autorità garante – per le aziende dei componenti di governo che superino la mole di affari di 15 milioni di euro. La gestione cieca non scatta solo quando le attività in conflitto con il ruolo pubblico appartengano al diretto interessato: si risale fino a parentele di terzo grado e si guardano anche a eventuali convivenze domestiche (un primo assaggio di coppie di fatto!). Ciò significa che chi vuole fare politica deve prima censire tutta la parentela: vi si potrebbe annidare un consanguineo imprenditore e allora addio carriera ministeriale. L’altro aspetto critico è quello relativo alla nascita di una nuova autorità che vigili sui conflitti di interessi. Si tratterebbe di un nuovo carrozzone pubblico con garanti stipendiati come i deputati, settanta dipendenti assunti e un numero non precisato di consulenze.

Le critiche al conflitto di interessi non vengono solo dal centrodestra. C’è una parte della sinistra – quella radicale e quella legalitaria – che trovano il testo elaborato da Violante troppo moscio e poco antiberlusconiano.   «Il testo così com’è è debole e se tale rimane le difficoltà a votarlo restano tutte», ha dichiarato Pino Sgobio, capogruppo del Pdci alla Camera. L’idea della sinistra radicale è di arrivare alla ineleggibilità in Parlamento per tutti gli imprenditori. Insomma, una rivolta di classe. Italia dei Valori invece spinge per una soluzione più drastica rispetto al blind trust. Il capogruppo dei dipietristi alla Camera, Massimo Donati, propone infatti «l’incompatibilità assoluta per i politici titolari di patrimoni industriali di enorme rilevanza, o di presenze industriali rilevanti in settori strategici e sensibili dell’economia, quali ad esempio telecomunicazioni, difesa o media». Faceva prima a fare nome e cognome.