
Contro il “partito del Covid”, il dovere di vivere

23 Giugno 2020
“Spesso il male di vivere ho incontrato”, scriveva Eugenio Montale. Ma incontrarlo davvero è un’altra storia. Per rendersene conto, in questo strano periodo di virus sì – virus no – virus forse, è sufficiente fare un giro per il centro Italia. Ci si accorge di come il livello di psicosi sia inversamente proporzionale ai drammi che le popolazioni hanno attraversato.
Se nei “quartieri bene” delle grandi città ancora prevalgono i bardati a cielo aperto e ci si guarda in cagnesco, nelle zone terremotate, nei piccoli bellissimi centri sfigurati dal sisma del 2016-2017 e poi dimenticati dallo Stato, non c’è diffidenza tra esseri umani. Il saluto a gomitate non sanno cosa sia, ci si stringe la mano e pure con calore. Al netto delle situazioni in cui vigono regole ferree, la mascherina è un di più non richiesto, basta far vedere che all’occorrenza la si porta appresso; non indossarla è un gesto di familiarità e fiducia, di normalità, del quale quella gente provata e tenace quasi ti ringrazia. Se la sono vista brutta da quelle parti, hanno temuto di morire, hanno bisogno di ripartire, e di tutto avvertono l’esigenza fuorché di un ulteriore stato di sospensione per la coda psicotica di un’epidemia che qui sostanzialmente non è mai arrivata.
E se nell’entroterra appenninico il “partito del Covid” non se la passa tanto bene, nel resto d’Italia la battaglia infuria. A segnare uno spartiacque decisivo è stata nei giorni scorsi un’intervista di Giuseppe Remuzzi, scienziato italiano fra i più autorevoli e accreditati nel mondo, il quale ha dato conto – con argomentazioni scientifiche e risultanze empiriche – di un’evidenza destinata a cambiare tuto: che positività al tampone non significa contagio e tantomeno contagiosità. Che essere entrati in contatto con il virus non significa che esso abbia reso il soggetto ospite un portatore contagiato (sintomatico o asintomatico che sia), e tantomeno un potenziale untore per gli altri. Che esperimenti effettuati dimostrano come l’incidenza numerica di “positivi non infetti” sia enorme rispetto ai positivi.
Soprattutto, che questo elemento è rilevabile dall’esito dell’esame diagnostico e – come Remuzzi ha con eleganza sottolineato – sarebbe corretto darne conto nei bollettini quotidiani diramati dalle autorità competenti, senza spacciare indiscriminatamente i tamponi positivi per “nuovi casi”. Consiglio fin qui neanche preso in considerazione, ma di cui gli imprenditori dei settori più esposti farebbero bene a prendere nota, perché il modo in cui i dati vengono diffusi non è irrilevante rispetto alle decisioni assunte e alla reazione psicologica della popolazione, e se questo modo dovesse rivelarsi improprio non sarebbe forse peregrina l’ipotesi di un contenzioso che verifichi eventuali responsabilità di fronte al perdurare di specifiche difficoltà economiche.
Come prevedibile, l’intervista-bomba di Remuzzi ha prontamente scatenato la contraerea. Nessuno è stato in grado di confutarne il contenuto, ma il mainstream scientifico-mediatico è tornato a suonare la carica del “moriremo tutti”, “allarme movida” (orrida parola diventata molto di moda), “pericoloso abbassare la guardia”, basando le proprie infauste previsioni sulla litania quotidiana dei nuovi casi che a quanto pare “casi” potrebbero non essere affatto. E poco importa ai profeti di sventura che perfino l’Oms, delle cui giravolte abbiamo ormai perso il conto, abbia invitato a considerare guariti gli infetti dopo tre giorni senza sintomi senza bisogno del doppio tampone fin qui richiesto per poter mettere il naso fuori di casa. Poco importa anche che uno studio di Pavia abbia dimostrato che su 280 tamponi di pazienti guariti dal virus e tuttora positivi (dunque tenuti in isolamento e registrati come “casi” attuali nel bollettino) neanche il 3 per cento presentino una carica realmente infettiva.
Eppure, invece che i virologi da salotto (tv) basterebbe ascoltare i medici impegnati da mesi nelle trincee più esposte, dapprima applauditi dai balconi e osannati come eroi nazionali, ora silenziati perché provano a spiegare che sotto i loro occhi i reparti si vanno svuotando e il virus spegnendo. “Piuttosto che forzare i dati e terrorizzare indebitamente le persone”, sostengono alcuni angeli in corsia, “iniziassero a disporre il monitoraggio delle persone che rientrano in Italia dai Paesi dove il coronavirus ha ancora una carica virale significativa…”.
Parole al vento. Nelle ultime ore, peggio che andar di notte. Sarà per l’assalto domenicale alle spiagge, dimostrazione che il terrore non ha prevalso del tutto e un po’ di voglia di vivere gli italiani ce l’hanno ancora; sarà per il flop dei test sierologici a campione (su 150mila selezionati, solo uno su tre ha fin qui accettato di sottoporsi allo screening); sarà per il mega-flop della app “Immuni” (l’hanno scaricata in 3,5 milioni, per funzionare ne servirebbero dieci volte tanto), invece di porsi qualche domanda sull’evidente sfiducia che tutto ciò denota nei confronti delle istituzioni governative, tecniche e scientifiche, sui media l’attacco allarmistico si è fatto concentrico.
Incurante delle evidenze, incurante della pessima pubblicità offerta dalle cronache di questi giorni (la signora di Bari che dopo aver scaricato “Immuni” e diligentemente segnalato una notifica ricevuta è finita in quarantena senza la possibilità di un tampone, la signora di Palermo punta da un insetto, sottoposta a quattro tamponi Covid e morta…), la macchina del terrore ha ripreso a girare a pieni motori, spesso appoggiandosi al quadro epidemiologico di Paesi diversissimi dal nostro per situazione ambientale e per una miriade di altri fattori.
E noi italiani, che si fa? Archiviata con la farsa degli Stati Generali della gente che piace alla gente che piace ogni eventuale residua speranza, semmai ancora vi fosse, di un sussulto di consapevolezza da parte delle autorità di governo, il futuro è nelle nostre mani. I primi segnali di un ritorno alla vita sono certamente benauguranti ma non bastano. La campagna “terroristica” sortisce ancora i suoi effetti, e la ripresa, dopo una iniziale illusione, si manifesta vistosamente “a zone”. E il fatto che invece di diffondere i dati su quante persone sono andate al ristorante la sera prima le istituzioni territoriali continuino a diramare bollettini quotidiani sui controlli effettuati e le multe comminate agli esercenti non aiuta a rasserenare gli animi di chi, pur nel rispetto delle regole, prova ad andare avanti e a non arrendersi.
Certo, l’arrivo della stagione estiva aiuta. Il sole stimola la produzione di endorfine. Con queste giornate rimanere tappati in casa appare più innaturale che mai. Ma c’è un lavoro da fare su noi stessi prima ancora di esigere dagli altri gli strumenti per ripartire.
Il fatto è che stare chiusi nella bolla ha le sue comodità. L’interazione sociale comporta la sua buona dose di fatica, impone di mettersi in discussione, espone alla possibilità di essere contraddetti. E il contatto con i corpi degli altri ridimensiona uno spazio fisico ma anche emotivo del quale in questi mesi abbiamo imparato a sentirci padroni indiscussi.
Insomma, la strisciante assuefazione al distanziamento è il vero virus che oggi bisogna evitare. Perché si porterebbe appresso una intera economia nazionale fondata in parte considerevole sulla socialità. E perché recidendo i legami si finirebbe con lo slabbrare la trama di una vitalità che ci ha reso grandi nella storia e ci ha sostenuto nelle difficoltà.
L’atteggiamento delle popolazioni terremotate ce lo insegna. Chi lotta per la sopravvivenza non ha tempo per inseguire fantasmi. Per tutti gli altri, allora, il dovere di uscire dalla bolla vale doppio. Anche se costa fatica. Anche se da soli qualche volta si sta bene, soprattutto se ci si sta con l’alibi morale di contribuire a evitare una strage quotidianamente paventata da una propaganda martellante.
Ai governanti, alle strutture tecniche e ai virologi da tubo catodico chiediamo dunque di lasciarci in pace e piuttosto di aiutarci a ripartire. A noi stessi chiediamo la forza di adempiere a un compito inderogabile per il futuro della società. Il dovere di vivere. Di uscire dal tunnel, anche se a volte la luce sembra troppo accecante.