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Contro la sinistra violenta serve una lezione di democrazia militante
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10 Febbraio 2008
di Gianni Donno
Le recenti vicende dell’agitazione contro la visita di Benedetto XVI alla Sapienza, cui son seguite le contestazioni alla Fiera del Libro di Torino, per l’edizione dedicata ad Israele, nel 60° anniversario dalla fondazione, fanno parte di una ormai lunga serie di atti di intolleranza, i cui precedenti vanno ricercati nel passato della Repubblica. L’illegalismo, fatto di atteggiamenti intimidatori, occupazioni, blocchi stradali, aggressioni trova la sua antica origine nel modo in cui in Italia, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la sinistra di ascrizione marxista ha interpretato il suo ruolo nell’agone politico e sociale della società capitalistica. Fu dichiarato, questo ruolo, e regolarmente praticato, come ruolo antagonista, antisistema, al quale la pratica riformista nel governo di alcune realtà regionali serviva solo da strumento temporaneo per l’avvicinamento all’obiettivo dichiarato e ribadito del rovesciamento della società capitalistica. Non fu doppiezza, politica, culturale, morale, quella del Pci: fu lucida e coerente visione e pratica antagonistica, rispetto ai pilastri della società democratico-capitalistica occidentale, cui talune pratiche di riformismo sociale agirono da semplice supporto. L’operazione tentata da alcuni anni di rovesciare le parti, cioè di accreditare un Pci riformista e gradualista (erede diretto del riformismo socialista, Craxi compreso!), nel quale le componenti massimaliste sarebbero state minoranza tenuta a freno, non regge di fronte alle più equilibrate ricostruzioni storiche, basate oltretutto su nuova documentazione emergente.
Il massimalismo ed il rivoluzionarismo sono l’aspetto centrale nel dna del Pci. Il riformismo ne fu carattere secondario, strumentale, finalizzato a quella visione generale antagonistica, e non certo animato di vita ed elaborazione propria. “Riformista” fu a lungo una delle offese più spregevoli, lanciate contro l’avversario politico.
La cultura massimalistica del Pci, che trovò per decenni espressione nel culto della cosiddetta “Costituzione materiale” (contrapposta a quella che si dichiarava fosse l’arida ed inattuata Costituzione “formale”), ebbe costanti manifestazioni pubbliche. La gran parte delle quali furono, ed ancora sono, perfettamente illegali.
Il 25 aprile del 1948 sfilano nel corteo pubblico milanese i militanti della “Volante rossa”, nota formazione paramilitare del Pci, incaricata e responsabile di violenze ed omicidi. Era la sprezzante rivincita dopo la sconfitta alla elezioni politiche di una settimana prima. Con esatta continuità, che ricorda l’espressione della Rossanda circa l’album di famiglia del comunismo italiano, cui apparterrebbero le Brigate rosse, e, aggiungiamo noi, tutta la vasta serie di manifestazioni illegali sostenute dalle formazioni comuniste, il 25 aprile 1994 i manifestanti di Forza Italia, furono scaraventati fuori dal corteo ufficiale di celebrazione.
Insomma si potrebbe scrivere un grosso volume sulla tradizione di violenza ed illegalità politica nell’Italia repubblicana, nel quale la parte riservata alla violenza della sinistra comunista occuperebbe spazio molto consistente.
Sottolineando un aspetto centrale: cioè che la violenza pubblica (non quella armata o clandestina) di tradizione comunista si è sempre truccata, camuffata. Infatti si è regolarmente ammantata di finalità democratiche, invocando diritto di parola, di manifestazione, di opposizione a prepotenze e discriminazioni, prime fra le quali, naturalmente, quelle delle forze dell’ordine, degli Stati capitalisti ed imperialisti, e dei loro “servi”.
Il cliché di questa violenza, camuffata da nobili intenti democratici, è sempre lo stesso.
Viene invitato nell’Università di Siena l’ambasciatore dello Stato di Israele? Si organizza un presidio e un’occupazione dell’ateneo, perché il rappresentante di uno Stato, definito genocida, non parli.
Il governo italiano in carica, regolarmente sostenuto da una maggioranza parlamentare, decide il percorso ferroviario per collegamenti internazionali? Si organizzano blocchi stradali e manifestazioni, invocando la cosiddetta “democrazia di base”, che è la perfetta eversione dei principi dello Stato democratico-rappresentativo.
Altro che leggi elettorali o regolamenti parlamentari da rivedere: in Italia il senso dello Stato e della sua autorità è stato costantemente manchevole, perché costantemente messo in discussione. Se ne potrebbe parlare a lungo.
Ma oggi la domanda da porsi, al possibile aprirsi di una nuova stagione, in cui il riformismo di sinistra pare (pare) voglia fare finalmente la sua parte, abbandonando la cultura dell’illegalità mascherata, è la seguente: quale atteggiamento nuovo, incisivo, non semplicemente denunciatario, assumere di fronte alla (probabile) ripresa in grande stile delle attività antagonistico-illegali della sinistra di tradizione comunista?
La risposta, infatti, non può essere, come è avvenuto da decenni a questa parte, la deplorazione verbale delle prepotenze ed il richiamo ai principi della tolleranza. Bisogna chiedersi: questo tipo di risposta, professante nobili principi, ha sortito effetto? E quindi, in conseguenza di essa, è forse scemata la carica violenta delle componenti antagonistico-eversive della realtà politica e sociale del Belpaese? La risposta è, con ogni evidenza, no. Cioè: i bei discorsi, o le belle prediche sulla democrazia e sulla tolleranza, son servite a poco, forse a niente. Che fare, quindi?
E’ necessario che si apra una stagione nuova, in cui i diritti del cittadino, di fronte alle prepotenze ed alle intolleranze, siano tutelati. E’ necessario aprire la stagione della Democrazia militante.
Se le forze dell’ordine non bastano e non sono all’altezza di comprendere la violenza, così spesso camuffata da buoni propositi, è necessario che la parte consapevole, e stufa delle prevaricazioni, dei cittadini si organizzi regolarmente in Presidi democratici, in Presidi di libertà.
A cominciare dalle Università, luogo dell’illegalismo più diffuso. Giampaolo Pansa, ad esempio, non può -come ha fatto per senso di responsabilità- rinunciare in toto ad uscite pubbliche, anche nelle Università, per presentare e discutere i suoi libri. Esse potrebbero provocare disordini, come è successo. Ma in tal modo ci si è arresi alla prepotenza di frange intolleranti, che, come si è visto, subito ripetono il clichè della prevaricazione, volta ad impedire la libera manifestazione del pensiero, la libera partecipazione. La vicenda di Benedetto XVI conferma. Non è forse opportuno assumere l’iniziativa di risposte non verbali, ma di presenza militante, democratica, sul campo?
Il filosofo Gianni Vattimo, appena ieri, in un’accesa discussione con Pierluigi Battista, sul tema del boicottaggio alla Fiera torinese del libro, ha dato la più alta manifestazione dell’intolleranza, che merita una risposta non solo verbale: alla fine del dibattito, non soltanto ha urlato che Israele è uno Stato dittatoriale, ma addirittura non ha escluso un proprio coinvolgimento fisico nel boicottaggio (che lo spettatore attento non può aver confuso con la “partecipazione personale”). Parole a molti sfuggite, nella concitazione del discorso, ma lì rimaste a dimostrazione che l’intolleranza si veste di abiti antichi, consunti, e che ora ha bisogno di una risposta vera, efficace, di democrazia militante, sul campo.