E’ notizia recente che la United States Agency for International Development (USAID) ha tolto ogni appoggio a Mary Stop International, leader dell’aborto mondiale e, secondo l’amministrazione USA, molto attiva nella collaborazione con i programmi forzati di limitazione delle nascite del governo cinese. La decisione è in armonia con il famoso emendamento Kemp-Kasten che divenne legge nel 2002 e secondo cui non possono ricevere aiuti internazionali dagli Stati Uniti i promotori e attori di programmi di aborto coatto o di sterilizzazione forzata. E’ la stessa legge che ha permesso a Bush di togliere i finanziamenti americani al United Nations Population Fund (UNFPA) che, notoriamente, è impegnato a livello planetario sul fronte dell’aborto e della sterilizzazione. Steve Mosher, del Population Research Institute, sostiene che Bush ha ritirato quei finanziamenti su pressione della sua organizzazione, la più importante agenzia pro-life americana, ma non si può negare una chiara volontà politica dell’amministrazione Bush dato che i tagli all’UNFPA furono decisi appena eletto presidente, in simbolica controtendenza con Bill Clinton che li aveva ripristinati nel 1993, anche lui appena insediato alla Casa Bianca, dopo che Ronald Reagan li aveva censurati nel 1984.
Dopo il taglio dei fondi alle agenzie pro-aborto, venne l’altra “scandalosa” decisione del governo Bush, il divieto dell’aborto a nascita parziale, praticato nelle ultime settimane di gravidanza, mediante l’aspirazione del cervello del bambino partorito a metà (altrimenti sarebbe omicidio): “solo” 5.000 su un totale di 1 milione di aborti annui negli Stati Uniti, ma particolarmente riprovevoli. Nel 2003 il Congresso a guida repubblicana approvava il Partial-Birth Abortion Ban Act. Anche nel 1996 e nel 1997 il Congresso aveva deciso in questo senso ma si era sempre scontrato con il veto di Clinton. Il 18 aprile 2003 la Corte suprema con una votazione di 5 a 4 ha poi respinto gli argomenti contrari al "Ban Act": decisivi sono stati i voti dei due giudici nominati da Bush: Samuel Alito e John Roberts. Nell’aprile scorso, Barak Obama si lasciò sfuggire la infelice frase: “Se le mie figlie facessero un errore, non dovrebbero essere punite con un bimbo”. Un lapsus, certamente. Sta di fatto che nel 2003 lo stesso Obama si era dichiarato fermamente contrario (“I strongly disagree”) alla decisione della Corte suprema. Opinione uguale a quella espressa da Hillary Clinton che vi aveva visto un "attacco alle libertà civili".
Bush è stato accusato di "epurare" dal Consiglio di bioetica (sotto la Presidenza) alcuni esperti non allineati con la difesa della vita, come il teologo William May e la biologa Elizabeth Blackburn. Insomma l’accusa è stata di politicizzare la bioetica. Appena nominato, nel 2001, il Comitato ha pubblicato un libro bianco sulle “fonti alternative alle cellule staminali pluripotenti”, valutando con saggezza le diverse alternative. Ha poi pubblicato due Rapporti, il secondo dei quali è uscito quest’anno con il titolo Human Dignity and Bioetichs e contiene contributi di alto valore, indirizzati ad “allargare la ragione”, fino a rilanciare temi ormai desueti come anima, sostanza, natura umana. Non si tratta di politica, ma di politica culturale sì. Del resto, che altro modo c’è di invertire la tendenza di una cultura scientifica che si propone come neutra, ma che in realtà fa ideologia? Sulla questione delle staminali, il presidente Bush ha posto per 4 volte il suo veto – solo nel secondo mandato – alla legge che prevedeva il finanziamento con fondi federali alla ricerca sulle staminali embrionali. L’ultima volta è stato il 20 giugno 2007. In quell’occasione ha dichiarato l’impegno del governo di finanziare la ricerca sulle staminali adulte, perché “Dobbiamo perseguire le possibilità della scienza in una modalità che rispetti la dignità umana e che sostenga i nostri valori morali”.
Non c’è dubbio che uno dei principali lasciti politici di George Bush è l’impegno per la vita e, in generale, l’impegno per una bioetica rispettosa della dignità umana. Su questo argomento c’è stata spesso una significativa convergenza con la diplomazia della Santa Sede. Vaticano e governo americano hanno svolto insieme diverse battaglie contro i progetti sanitari dell’UNICEF che comprendevano la garanzia dell’aborto e contro la Convenzione ONU sui diritti dei disabili, laddove si prevedeva esplicitamente la possibilità di abortire in caso di feto malformato. Anche la dura presa di posizione del Cardinale Martino contro Amnesty International nel giugno 2007 lasciava trasparire una unità di visione con l’amministrazione americana. Non è un caso che nel corso dell’attuale campagna elettorale, i vescovi americani, sia collettivamente che attraverso loro singole personalità, siano intervenuti a chiarire la responsabilità degli elettori proprio sulle questioni della vita. Lo scorso settembre, l’Arcivescovo di Denver è subito intervenuto per contestare le tesi del candidato alla vicepresidenza Biden e della speaker della Camera Nancy Pelosi. Nei giorni scorsi i vescovi del Texas hanno chiarito che in presenza di una alternativa, i cattolici non possono votare per un candidato pro aborto. Essi hanno anche fornito il criterio etico per spiazzare Obama: la questione dell’aborto non può essere paragonata a quella della lotta alla povertà, dell’ingiustizia o della guerra. Questi temi sono oggetto di giudizio prudenziale, l’aborto no.