Contro l’accordo di Gibuti le Corti Islamiche rilanciano il jihad

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Contro l’accordo di Gibuti le Corti Islamiche rilanciano il jihad

12 Giugno 2008

Il 9 giugno, a Gibuti, dopo 10 giorni di colloqui, il governo somalo e l’Ars, l’Alleanza per la ri-liberazione della Somalia che raccoglie parte dell’opposizione, hanno sottoscritto un accordo per il cui raggiungimento si è resa necessaria la mediazione di Nazioni Unite, Unione Europea, Lega degli Stati Arabi, Organizzazione della conferenza islamica, Unione Africana, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Gibuti e Arabia Saudita 

Il testo dell’accordo, articolato in 11 punti, prevede una tregua di 90 giorni iniziali, rinnovabili, che entrerà in vigore su tutto il territorio nazionale a 30 giorni dalla data della firma. Entro 15 giorni a partire dal 9 giugno sarà quindi istituito “un comitato ad alto livello, presieduto dall’ONU, (…) per vigilare sulla cooperazione politica tra le parti e sulle questioni della giustizia e della conciliazione”, problemi che saranno discussi “in una conferenza che avrà inizio il 30 luglio”. 

Il governo assicura, “in conformità con la decisione già presa dal Governo Etiopico”, il ritiro da tutto il territorio nazionale delle truppe di Addis Abeba intervenute nel 2006 per difendere le istituzioni politiche minacciate dalle Corti Islamiche. L’Ars si impegna a una “solenne dichiarazione pubblica” di cessazione e condanna di ogni tipo di violenza armata e di dissociazione “da ogni individuo o gruppo armato che non aderiscono ai termini” dell’accordo. Governo e Ars concordano inoltre di chiedere entro 120 giorni alle Nazioni Unite, secondo quanto previsto dalla risoluzione 1814 del Consiglio di Sicurezza, “l’autorizzazione e l’impiego di una forza di stabilizzazione da parte delle nazioni ‘amiche’ della Somalia, esclusi gli Stati confinanti; si appellano “alla comunità internazionale per la fornitura di adeguate risorse per l’applicazione e la vigilanza” dell’accordo e sollecitano a tal fine la convocazione entro sei mesi di una “conferenza internazionale per lo Sviluppo e la Ricostruzione della Somalia”; infine, in considerazione della gravissima situazione “umana e umanitaria”, promettono di “prendere tutte le misure necessarie per assicurare il libero accesso umanitario e l’assistenza alle popolazioni colpite”. 

Malgrado la soddisfazione manifestata dalle Nazioni Unite e l’ottimismo espresso soprattutto da chi negli ultimi mesi ha creduto nel dialogo con la parte più moderata dell’opposizione somala, vari fattori inducono alla prudenza nel valutare gli effetti dell’accordo. La Somalia è in guerra dal 1991 quando il dittatore Siad Barre è stato costretto alla fuga da una momentanea coalizione di clan. Subito dopo la sua caduta, l’alleanza si è sciolta e i capi clan hanno scatenato una feroce lotta per il potere. Da allora, con l’incessante mediazione internazionale, hanno negoziato e concluso altri accordi di pace, però senza mai smettere di combattere. L’ultimo, siglato nel 2004 a Nairobi, Kenya, sembrava aver risolto definitivamente la crisi politica centellinando l’assegnazione delle cariche governative e parlamentari tra i clan maggiori e minori, ma non è bastato. Poco dopo il trasferimento in patria delle nuove istituzioni politiche ad interim, il conflitto è infatti riesploso e nel 2005 le forze antigovernative si sono unite nell’Unione delle Corti Islamiche, legate al terrorismo internazionale. Disperse alla fine del 2006 grazie all’intervento militare dell’Etiopia sostenuta dagli Stati Uniti, le Corti si sono presto riorganizzate e rafforzate.  

Il secondo fattore che induce alla cautela è il fatto che proprio l’Unione delle Corti Islamiche non ha partecipato ai colloqui di Gibuti. Mentre si festeggiava la firma dell’accordo, intensificava anzi gli attentati a Mogadiscio, sede del governo e del capo dello stato, e a Baidoa, la città che ospita il Parlamento. “Ritengo che l’esito della conferenza non avrà alcun impatto sulle ostilità – ha dichiarato all’indomani della firma Hassan Dahir Aweys, il fondatore delle Corti – noi continueremo a combattere finché non avremo liberato il nostro paese dai nemici di Allah”. Altri leader islamisti hanno immediatamente confermato le sue minacciose parole. Non resta che attendere i prossimi sviluppi, per l’Italia con un motivo di apprensione in più dal momento che ancora si attende la liberazione dei nostri due connazionali, dipendenti dell’organizzazione non governativa Cins, rapiti il 21 maggio.