Contrordine compagni! L’Europa ora fa marcia indietro sul “20-20-20”
27 Maggio 2010
Parlare di clima, anzi di cambiamenti climatici, in questi giorni sembrerebbe un poco fuori luogo. I paesi più avanzati, tutti, si stanno attrezzando per affrontare una crisi economica seria che parte da lontano, un regalo avvelenato proveniente da oltreoceano ma nel quale anche gli gnomi europei hanno allegramente affondato le mani e pesantemente lucrato sulle spalle dei cittadini.
Eppure non si puo’ tacere la situazione che si sta determinando e che questo giornale, tra i primi, aveva previsto da tempo: tutti indistintamente, i vari paesi europei che due anni fa si erano fatti belli proponendo obiettivi oggettivamente inaccessibili nel contesto nel quale si muovevano, ma altisonanti e ammiccanti verso gli ecologisti duri e puri, oggi stanno facendo repentine marce indietro riconoscendo, magari a mezza bocca, che non ce la faranno a raggiungere nemmeno tappe intermedie.
Ricordate il famoso 20:20:20 per cui l’Europa, prima al mondo, entro l’anno 2020 avrebbe dovuto raggiungere il 20 per cento di produzione elettrica da fonti rinnovabili, il 20 per cento di risparmi nella produzione di energia ed un 20 per cento nella riduzione della CO2? Anzi, come ancora velleitariamente affermavano pochi mesi fa i soliti burocrati di Bruxelles, bisognava fare di più, essere i primi al mondo nella sfida e raggiungere il 30 per cento nelle tre linee? Ebbene no, contrordine compagni! tutto è fermo, non si va più in questa direzione perché le condizioni politiche ed economiche mondiali e locali non lo consentono. E poi, ohibo’, di colpo ci si accorge che alcuni grandi inquinatori continuano a non voler fare la loro parte per cui non si vede più la ragione per cui gli europei dovrebbero partire su questa linea: ecco quindi che di colpo i temi climatici non hanno più il peso strategico di prima e calano rapidamente di posto nelle agende politiche.
C’era da aspettarselo, lo dicemmo, e prevedemmo, tra i pochi fuori dal coro, che la mega kermesse ONU di Copenhagen sarebbe stata un fallimento completo per molte ragioni: cattiva preparazione, velleitarismo delle premesse ed oggettiva inarrivabilità dei risultati attesi, forte contrapposizione tra i paesi del G8 e quelli BRIC sostenuti dai piccoli e dai poveri, ruolo ormai determinante della Cina e suo peso nelle negoziazioni a fronte dell’intrinseca debolezza statunitense, nonostante i premi Nobel per la pace distribuiti come fossero caramelle ai suoi governanti ed opinion makers.
Il risultato è stato che hanno perso tutti: la credibilità scientifica in primis, anche grazie alla sequenza di errori, omissioni e veri e propri imbrogli dello IPCC e del suo coordinatore più interessato ad assicurarsi consulenze milionarie in giro per il mondo che a svolgere un vero servizio per i cittadini. Nonostante queste evidenze, leggiamo pero’ di nuovo sulla stampa interventi di persone che già si erano agitate nel passato rivestendosi della bandiera dell’ecologia con argomenti poco suffragati da dati scientifici ma molto dipendenti da quelli dello IPCC, che oggi non potendo più basarsi sui risultati di un Organismo che si è largamente squalificato da solo, tentano di riaccendere le paure sul clima affermando che non se ne parla più perché “potenti lobby” contrarie all’affermazione che i cambiamenti climatici dipendessero essenzialmente dall’intervento umano (tesi questa sostenuta dallo IPCC) “gettano fango sui più illustri centri di ricerca climatica nel tentativo di smentire una realtà che è sotto gli occhi di tutti”.
Se non fossero disarmanti nella loro pochezza, si dovrebbe dire che affermazioni di questo tipo hanno semplicemente del grottesco per vari motivi; elenchiamo i più evidenti: innanzitutto i risultati su cui si sono basati i dati dei climatologi dello IPCC sono sempre stati fortemente controversi e criticati da molti altri scienziati: non si capisce perché la verità, dato il contesto, dovesse “necessariamente”, quasi per opera divina, essere soltanto appannaggio di “una sola parte” degli scienziati, stranamente quella rivelatasi poi manipolatrice di dati e venditrice di false paure; è sotto gli occhi di tutti da sempre che lo IPCC sia stata “per prima” una lobby estremamente potente ed estremamente ricca che ha espulso dal suo seno qualunque “contestatore”, anche solo qualcuno che, saggiamente, faceva rilevare alcune incongruenze evidenti anche a studenti universitari alle prime armi. Fatti di questo genere fanno ripensare al vecchio detto “del bue che dice cornuto all’asino”. In effetti, il risultato dello scacco dello IPCC è stato l’immediato inaridimento delle somme cospicue che autorità pubbliche e private avevano convogliato nella sua direzione e verso gli scienziati di riferimento del gruppo innescando un’intera nuova fase dell’economia, la riduzione della CO2, con annessi e connessi di vario tipo.
Alcuni problemi climatici esistono davvero e si sarebbero dovuti affrontare con serietà e con l’elasticità propria di qualunque impresa scientifica nella quale il dibattito, la dialettica anche forte, sono pratica comune ma dove tutto è finalizzato alla ricerca della verità: così non è stato ed adesso il pendolo è partito nella direzione opposta, per questo chi rischia di restare a bocca asciutta sbraita accusando di lobbismo gli emarginati di un tempo dimenticandosi del lobbismo pesante e scorretto che ha praticato sino a ieri a proprio vantaggio. Ma la crisi economica avanza, ed ecco che già Francia e Germania hanno precisato che non intendono onorare gli impegni pregressi sulla riduzione dei gas serra perché irraggiungibili nell’attuale situazione economica; altri seguiranno, più prima che poi.
D’altra parte la situazione economica a livello globale è tale da far pensare che le eventuali riduzioni della CO2 e degli altri gas serra si produrranno da sole, e forse in quantità superiore a quelle negoziate a tavolino, semplicemente a causa della generale contrazione dei consumi che rischia di determinarsi per la catena di operazioni risparmio che tutti i paesi stanno mettendo in opera uno dopo l’altro per salvare la loro moneta e l’economia: chi vivrà vedrà.
Un fatto nuovo, di queste ore, fa riflettere: la notizia che un giudice della Virginia ha citato in giudizio la locale Università ed una delle colonne dello IPCC, il Prof. Man, i cui studi hanno rappresentato l’architrave più forte usato a sostegno dei risultati riportati nei documenti dello IPCC che hanno determinato la corsa angosciosa alla lotta ai cambiamenti climatici: accusa, tutta da provare in ogni caso, un uso di oltre mezzo milioni di dollari pagati dal contribuente per studi con risultati rivelatisi poco credibili e, soprattutto, artefatti. Per questo i rapporti di ricerca e la corrispondenza scambiata con tutti gli altri colleghi saranno esaminati con estrema cura.
Sarebbe facile strapparsi le vesta contro l’ignominia di un attentato alla libertà della ricerca; meraviglia anzi che non si sia già costituito un comitato di sostenitori di Man cui non mancherebbero di dare il loro contributo firmaioli di professione nostrani, pronti a firmare qualunque cosa in maniera acritica purché sia contro un attentato a qualcosa ed il loro nome sia ben in vista nelle pagine dei giornali.
Qui il problema è diverso: la libertà di ricerca, che ricordiamolo è fatta sempre con i soldi dei contribuenti, non può essere libertà di barare per sostenere qualcosa, soprattutto se questo porta sostanziosi finanziamenti a chi bara. Questo è furto finalizzato all’imbroglio: fare ricerca ed accorgersi dopo alcune prove che si era su una strada sbagliata è possibile e rappresenta una condizione normale per chi si occupa di scienza; rubare sui dati per altri fini è cosa diversa.
Per cui ben venga l’azione del giudice della Virginia: forse quest’azione porterà un minimo di chiarezza in un mondo che da troppo tempo ha vissuto nella scarsa trasparenza se non nell’opacità. E certamente ne guadagnerà anche il mondo delle persone serie che si occupano di ambiente, con buona pace dei catastrofisti che dovranno cercare nuovi temi dove esercitare le loro capacità.