Cooperazione allo “sviluppo”: nel vero mondo delle ONG

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Cooperazione allo “sviluppo”: nel vero mondo delle ONG

18 Luglio 2009

Quando si tratta di cooperazione allo sviluppo, al di là delle divergenze anche sostanziali su come realizzarla, sembra indubbia la necessità e l’utilità degli aiuti cosiddetti umanitari, destinati a soccorrere i civili in difficoltà a causa di guerre, carestie ed epidemie. Pare altrettanto certo che incaricare dell’assistenza umanitaria le ONG, le organizzazioni non governative, sia il modo migliore per ottenere degli ottimi risultati: le risorse affidate alle ONG – così si pensa – sono in buone mani e non vengono sprecate come invece succede quando a operare sono le grandi agenzie delle Nazioni Unite che finiscono per spendere in stipendi dei funzionari e in grandi eventi promozionali gran parte del loro bilancio.

Eppure qualcuno non è di questo parere. La giornalista olandese free lance Linda Polman ha scritto un libro intitolato L’industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra, pubblicato da poco in Italia da Bruno Mondadori, nel quale viene tracciato un quadro assai poco lusinghiero del mondo delle ONG: sprechi, improvvisazione, protagonismi di operatori improvvisati e irresponsabili, cifre gonfiate sull’entità di un’emergenza per ottenere più finanziamenti, concorrenza per aggiudicarsi l’attenzione dei mass media e quindi i fondi dei governi e degli organismi internazionali, rapporti più che approssimativi su spese e risultati conseguiti.

Si potrebbe obiettare che questo non mette in dubbio la validità della maggior parte delle iniziative. Concorrenza, incidenti di percorso e casi di malfunzionamento sono inevitabili in un settore che, secondo un’indagine dell’università americana John Hopkins, costituisce la quinta economia del pianeta, con un bilancio annuale, per le sole emergenze dovute a catastrofi naturali e conflitti armati, di sei miliardi di dollari offerti dai governi e di altre centinaia di milioni di dollari donati dai privati. L’UNDP, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, calcola che al mondo esistano oltre 37.000 ONG internazionali dedite ad attività umanitarie. Ad esse si aggiungono decine di migliaia di ONG nazionali e di “MONGO”, acronimo di My Own NGO: così vengono familiarmente chiamate le associazioni benefiche create da piccoli gruppi di cittadini che operano contando sui propri fondi e su donazioni di amici e conoscenti.

Ma vi sono problemi di ben altra natura e tali da sollevare seri interrogativi sull’esito stesso delle attività umanitarie, soprattutto di quelle svolte in zone di guerra. Vi è quello, ad esempio, dei refugee warriors, i combattenti che si mescolano tra i civili ospitati nei campi per profughi e sfollati. Si tratta di una tattica abituale: “Secondo alcune stime – spiega Polman – tra il 15 e il 20 per cento degli abitanti dei campi profughi sono refugee warriors che tra un pasto e un trattamento medico portano avanti le loro guerre”. In certi casi però la percentuale sale vertiginosamente. Nel 1994, ad esempio, furono allestiti dei campi per profughi a Goma, Repubblica Democratica del Congo, per accogliere centinaia di migliaia di profughi dal vicino Rwanda dove l’etnia Hutu aveva tentato lo sterminio di quella Tutsi uccidendo in 100 giorni 937.000 civili. A fuggire oltre confine, inseguiti dalla successiva controffensiva Tutsi, erano proprio gli Hutu, inclusi i militari e l’intera classe politica, che continuarono per mesi il massacro dei Tutsi, tornando ogni sera nei campi divenuti quartieri militari sotto gli occhi degli operatori.

Ma c’è di peggio perché, fatto ancora più grave, una quantità immensa di denaro e di beni destinati alle popolazioni finiscono – sotto forma di dazi per il transito dei convogli, di estorsioni, di percentuali concordate con le autorità politiche e militari per poter operare in un certo territorio, di furti sistematici e via dicendo – nelle mani dei combattenti, dotandoli delle risorse necessarie a combattere e quindi a infierire sui civili inermi. “Grazie ai proventi delle trattative con le organizzazioni internazionali – sostiene Linda Polman – i gruppi in lotta mangiano e si armano, oltre a pagare i loro seguaci” e questo influisce in maniera decisiva sull’intensità e sulla durata delle guerre. Nell’ambiente della cooperazione internazionale, trattare con le milizie in guerra si dice “shaking hands with the devil”: fare patti con il diavolo.