Cosa c’è dietro il ritiro di Bombassei
17 Dicembre 2007
di redazione
Tappa importante nella corsa per la presidenza di
Confindustria: si ritira (così “ufficialmente” da rendere difficile un
“ritorno”) Alberto Bombassei. Solo giorni fa aveva detto che ogni
vicepresidente sogna di fare prima o poi “il primo”.
Perché ha
cambiato idea? Pesa la guida di una stupenda impresa (la Brembo) che proprio di
questi tempi ha fatto acquisizioni negli Stati Uniti. Però i “nuovi impegni”
c’erano anche quando si dichiarava sui “sogni dei vice”.
In realtà la sua corsa
era difficile perché aveva coperto –
anche se culturalmente non condiviso – la linea montezemoliana oggi così
evidentemente fallita. Poi è arrivata la vicenda “anticipi” sul contratto dei
metalmeccanici. Gli apologeti di Sergio Marchionne (peraltro manager di grande
valore) hanno definito geniale la mossa di anticipare 30 euro ai dipendenti:
preparava soluzioni, spezzava vecchi riti e così via. Di fatto era una mossa
ispirata alla sbadataggine (un comprensibile rifiuto per una certa italianità)
con cui Marchionne tratta le questioni extraziendali e, poi, dall’esigenza di
straordinari previsti per il mese di dicembre. Alla fine è apparso un gesto di
arroganza: ma come – hanno detto tanti imprenditori meccanici – tu Fiat hai la
presidenza, hai imposto come direttore generale il capo delle relazioni esterne
del Lingotto, hai infilato nella Finanziaria provvedimenti a tuo esclusivo
favore, e poi invece di guidarci, agisci da sola.
Bombassei,
persona accorta, si è defilato in un primo momento dall’“anticipo”, poi sotto
la pressione di Paolo Rebaudengo, capo delle relazioni industriali Fiat a cui
il leader della Brembo non sa dire di no, ha dato anche lui il suo “anticipo”
(più alto almeno di quello del Lingotto): l’atto è stato criticato anche dai
falchi di Federmeccanica – i più bombasseiani di tutti – di Brescia, Bergamo,
Mantova, rendendendo così nulle le sue chance di successo. La scelta
Marchionne, peraltro, ha anche spiazzato l’ala montezemoliana: da Andrea
Moltrasio a Massimo Calearo, esposti nell’avere coperto un predominio Fiat non
in grado d guidare gli imprenditori.
Tutta
la vicenda ha lanciato Emma Marcegaglia, tra i “vice” la meno montezemoliana e
sostanzialmente autonoma dal dominio “torinese”. Le due ale sconfitte, quella
sindalistica Marchionne-Bombassei e quella politicista dei montezemoliani, sono
concentrate ora nelle trattative con lei per futuri ruoli (in alcuni casi –
sicuramente in quello di Bombassei – meritati quanto a capacità “sindacale”) in
viale dell’Astronomia e soprattutto per proteggere il direttore generale
Maurizio Beretta, garante del Lingotto. Qualche problema negli assetti della
futura presidenza verrà dall’origine territoriale dei candidati: con un leader
lombardo sarà difficile avere tanti “vice” della stessa regione.
Con
la solita irruente intelligenza, nel dibattito sul futuro di Confindustria si è
inserito il Foglio osservando come oggi servirebbe un presidente meno intento a
giochi confindustriali e con maggiore carisma d’imprenditore. La seconda
osservazione va tenuta presente se riguarda il “carisma”, se invece vuole
contestare l’impegno imprenditoriale della Marcegaglia, è un’obiezione che non
condivido. Mentre invece è a mio avviso radicalmente sbagliata (seppure
provocatoriamente intelligente) l’idea che il leader di Confindustria debba
essere sostanzialmente estraneo all’attività sindacale dell’associazione. E’
sbagliata perché sottovaluta come lo specifico sindacale sia oggi fondamentale
per affrontare problemi vitali del Paese: produttività, salari, flessibilità,
sicurezza sul lavoro, formazione richiedono tecnicalità nell’affrontare la
controparte che non s’improvvisano. La storia confindustriale insegna questo:
non solo Luca Cordero di Montezemolo, che ha trattato lo “specifico” da cosa
noiosa, è stato il peggiore presidente di Confindustria di questo Secondo
dopoguerra, peggio del suo amico Luigi Abete, politicante come lui ma che
almeno contava su un Innocenzo Cipoletta in grado di dare consistena alla
presidenza, ma anche “giganti” come Gianni Agnelli e Guido Carli hanno fatto male
durante i loro mandati presidenziali. Ahimé! Guidare gli imprenditori non è
solo dimostrare la propria brillante intelligenza. I migliori, da Angelo Costa
a Luigi Lucchini a Vittorio Merloni, su contratti e organizzazione produttiva
sapevano dare lezioni a tutti.
La
Marcegaglia, per fortuna, sarà un presidente che lo specifico lo conosce bene.
Sarà capace, piuttosto, di ridare un carattere sindacale alla confederazione?
Sindacale – naturalmente – non vuole dire minimale. Difendere l’impresa
significa trattare le grandi politiche dello Stato: dall’ambiente alle
pensioni. O cederà alle spinte politiciste che chiedono all’associazione degli
imprenditori di essere quasi un partito che mette il becco dappertutto per
costruire sistemi di alleanza politici e personali? Certo, poi, siamo in una
situazione del Paese così scombinata che si cercano tutti i mezzi per aprire
una via d’uscita: è comprensibile come ci sia chi pensi a una Confindustria
autorevole (magari recuperando un Marco Tronchetti Provera) per puntellare il
quadro politico.
Personalmente sono convinto che oggi, anche a questo socpo,
serva una Confindustria combattiva capace di partire dallo “specifico” per dare
risposte più generali all’impresa e al Paese, ricompattando su questa linea la
base, superando le manovre divisive messe in piedi dai circoli pro Fiat e
grandi banche per battere (e chi perde qualche autocritica comunque se le deve
fare) la linea di un magnifico presidente come Antonio D’Amato. Sconfitto ma
non fallito, anzi: sulla famosa revisione dell’articolo 18 che gli fu
contestata è ora più o meno d’accordo anche Walter Veltroni, su flessibiltà e
pensioni le sue posizioni sono vincenti, il dirigismo Bankitalia fu smantellato
dagli stessi che avevano difeso contro di lui il fazismo, la sua grande
avversaria, la Cgil, boccheggia. Di Montezemolo invece che cosa sarà ricordato?
La liberalizzazione dell’aspirina?