Cosa c’è dietro l’Europa del NO

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Cosa c’è dietro l’Europa del NO

14 Settembre 2015

Si dice che l’Europa è divisa in due, che ha una doppia anima. Da una parte chi come l’Italia ha capito da tempo una cosa molto semplice: o si affronta insieme il fenomeno epocale delle grandi migrazioni andando alla radice dei problemi, in Africa e in Medio Oriente, oppure i singoli stati, da soli, vivranno in una perenne situazione di emergenza.

 

Dall’altra parte c’è l’Europa del No, che costruisce muri, manda l’esercito alle frontiere, gioca allo «scaricabarile», come ha detto il presidente della commissione Juncker. Nelle ultime ore questa Europa ha battuto un altro colpo durante il Consiglio europeo dei ministri degli interni. Quello che doveva essere un «progetto obbligatorio permanente» di redistribuzione dei profughi, per ora resta la «base» di un accordo che andrà in scena più avanti,  probabilmente al prossimo vertice, l’8 e il 9 ottobre, ma soprattutto vengono previsti già da adesso dei margini di «flessibilità» tra i contraenti.

 

Pesa insomma il veto messo dal cosiddetto «Gruppo di Visegrad», il V4, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, che della obbligatorietà dei vincoli proprio non vuole sentir parlare. Si è quindi voluto tenere conto delle «sensibilità» di Varsavia, che pure aveva mostrato qualche apertura, o dell’Ungheria, che invece persevera in una posizione, diciamolo, insostenibile.

 

La vera posta in gioco infatti non è ‘solo’ la redistribuzione dei 40 mila profughi accolti da Italia e Grecia o degli altri 120 mila che per adesso resteranno nel limbo, bensì di ripensare gli accordi di Dublino, d’introdurre l’asilo europeo, di intraprendere azioni mirate per la protezione delle frontiere esterne dell’Unione (confermate quelle contro gli scafisti) e di intervenire nei quadranti di crisi. Qualcosa Cameron l’ha fatta andando in Libano, un Paese che sta modificando la sua demografia sotto il peso di milioni di profughi provenienti dalla Siria. In serata, il premier Renzi è tornato a parlare di rilancio della cooperazione internazionale.

 

Detto ciò, chiediamoci cosa c’è dietro quella logica nazionalistica dell’Europa centro-orientale, per cui gli stessi valori praticati in una parte del continente – si pensi al senso della parola accoglienza nel nostro Mezzogiorno – vengono interpretati in tutt’altro modo dall’altra. «L’Europa centro-orientale,» ha scritto Stefano Stefanini sulla Stampa di ieri è «dominata da una geografia continentale,» da «una forte omogeneità culturale». «Due generazioni di regimi comunisti hanno fatto il resto».

 

Effettivamente la tragedia jugoslava ci ha insegnato quanto siano stati violenti i processi di redistribuzione del potere su base etnica dopo la caduta del Muro di Berlino, in che modo quei regimi politici che già durante il comunismo si erano connotati su delle politiche razziali si siano ricostruiti successivamente sul nazionalismo etnico, facendo dell’emarginazione in chiave sciovinista un elemento se non dominante certamente preoccupante del loro ambito sociale.

 

Ma chiusura, paura, esclusione, sono tutte cose antecedenti alla storia comunista. In Europa centro-orientale resistono tracce di un forte antisemitismo, circolano i Protocolli dei Savi di Sion, s’incontrano forze politiche che basano la loro propaganda sul complotto pluto-giudaico, dentro Stati dove le comunità ebraiche, ai tempi, furono ridotte al lumicino. Per stare al passato più recente, ricordiamo la storia di quell’ambasciatore designato che alla fine non atterrò in Italia, e meno male, perché considerava gli ebrei di Ungheria «agenti di satana».

 

Qualcuno obietterà che l’antisemitismo serpeggia, prende forma e colpisce anche nei Paesi dell’Europa occidentale, ed è vero, ma allora se quello in Europa centro-orientale non è razzismo (è bene ricordare che i Paesi dell’Est devono fare i conti anche con la pressione dei profughi provenienti dall’Ucraina), appare comunque una presa di consapevolezza sul piano etnico maggiore di quella che si registra in Paesi come il nostro, come se in Europa ci fossero davvero due culture diverse, una più aperta e l’altra più chiusa.

 

A tutto questo aggiungiamo infine la ragione sociale del Gruppo di Visegrad. Il V4, che da alcuni anni compie esercitazioni militari comuni, viene letto dagli esperti nel contesto degli «Stati disuniti d’Europa», quella visione della Ue per la quale l’Unione è diventata semplicemente un contenitore in cui i Paesi si aggregano intorno a degli Stati-guida, portando avanti ognuno, ogni gruppo, una propria politica e particolari interessi.

 

Ci sono quindi tutta una serie di ragioni storiche, sociali, geopolitiche, dietro il balletto sulla redistribuzione dei profughi che si sta svolgendo a Bruxelles, ma c’è una cosa che non si può accettare. Non si possono alzare muri davanti all’esodo di chi fugge da guerre e persecuzioni. L’Italia, la Germania e gli altri Paesi che intendono rispettare i diritti umani devono far valere la loro posizione.

 

L’Unione Europea non può essere sfruttata solo quando serve per ragioni di sicurezza, perché magari qualcuno sente il fiato di Putin sul collo. I valori europei sono tali se vengono accettati da tutti e senza una ripartizione equa dei profughi e dei rifugiati non c’è futuro perché a mancare sarebbe proprio un’identità europea.