Cosa comporta la modifica dell’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori

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Cosa comporta la modifica dell’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori

16 Luglio 2008

Nel nostro Paese parlare dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (l. 300/1970) è ancora un tabù. Qualsivoglia proposta di riforma del licenziamento individuale avanzata in passato, è stata sovente interdetta e si è rivelata, peraltro, causa di conflitto ideologico ancor più che dialogico. A volte è come discutere il sesso degli angeli: vige il sentore di una controversia destinata a rimanere irrisolta. C’è chi l’ha definito «baluardo a difesa della libertà e della dignità della persona nel luogo di lavoro», ignorando la mancanza di una norma analoga in altri Paesi europei che, tuttavia, hanno una legislazione robusta in materia di tutele dei diritti dei lavoratori.

D’altra parte l’immagine del baluardo si addice perfettamente come figura allegorica di quella parte di lavoratori iperprotetta dal nostro ordinamento; la restante forza lavoro beneficia, per contro, di tutele meramente parziali. Il nostro mercato del lavoro si caratterizza per la sua dualità da almeno un ventennio e, oltretutto, il peso della flessibilità è stato scaricato soprattutto sulle nuove generazioni. La riforma della tutela contro i licenziamenti individuali è uno di quegli elementi di cui il nostro ordinamento ha bisogno, per continuare nel processo di modernizzazione del diritto del lavoro (perché, come soleva dire Winston Churchill, non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare); per incentivare la stabilizzazione dei lavoratori sottoscrittori di un contratto “atipico”, ridistribuendo in tal modo le tutele (come succede nel Regno Unito, dove la percentuale dei lavoratori assunti a tempo indeterminato è superiore rispetto al nostro Paese, in virtù della presenza di flessibilità anche in uscita); per sostenere la crescita dimensionale delle imprese; per favorire l’emersione dal lavoro sommerso.

La stessa Commissione europea, presentando nel novembre 2006 il Libro Verde (intitolato “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”), ha per giunta dato l’abbrivio alla riforma della disciplina dei licenziamenti individuali per motivi economici (il Governo italiano di allora, rispondendo con ritardo alle domande poste dalla Commissione, sostenne, però, la mancanza di «evidenze empiriche tali da provare in modo univoco l’esistenza di una correlazione positiva tra minori vincoli in uscita e propensione delle imprese ad assumere»). 

La disciplina vigente
Il regime sanzionatorio previsto per il licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo si esplica in due diverse modalità: la tutela obbligatoria e la tutela (o stabilità) reale. La prima (ex art. 8 della l. 604/1966) è prevista per i datori di lavoro che occupino fino a 15 dipendenti (è facoltà del datore scegliere quale sanzione subire: ripristino del rapporto di lavoro o risarcimento del danno da 2,5 a 6 mensilità); la seconda (ex art. 18 della l. 300/1970) vige per i datori che impieghino più di 15 dipendenti (in questo caso, oltre al risarcimento del danno, è prevista la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro). 

La posizione della Corte Costituzionale
Secondo la sentenza n. 36/2000, è «da escludere che la disposizione di cui all’articolo 18, per quanto espressiva di esigenze ricollegabili ai menzionati principi costituzionali (artt. 4 e 35 della Cost., n.d.a.), concreti l’unico possibile paradigma attuativo dei principi medesimi. Pertanto, l’eventuale abrogazione della c.d. tutela reale avrebbe il solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto del lavoro, che risulta ricondotta, nelle discipline che attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella obbligatoria, al criterio di fondo della necessaria giustificazione del licenziamento. Né, una volta rimosso l’art. 18 della legge n. 300 del 1970, verrebbe meno ogni tutela in materia di licenziamenti illegittimi, in quanto resterebbe, comunque, operante nell’ordinamento, anche alla luce dei principi desumibili dalla Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30, la tutela obbligatoria prevista dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, la cui tendenziale generalità deve essere qui sottolineata». 

I precedenti tentativi di riforma
Nel 2001, Il Governo di allora, presieduto da Silvio Berlusconi, realizzò un disegno di legge (delega) in cui era inserita la proposta di sospensione temporanea dell’art. 18 dello Statuto, in particolare del diritto di reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato. Il disegno di legge prevedeva la momentanea sostituzione di tale diritto con un risarcimento pecuniario in relazione ad ipotesi particolari e, naturalmente, questo provocò la reazione della Cgil che, in risposta alle disattese istanze rivolte al Governo (ovvero richieste di espunzione della sezione dedicata all’ipotesi di modifica della norma) e alla ratifica finale delle correzioni apportate all’articolo 18 nel marzo 2002, indisse una manifestazione il 23 dello stesso mese. In seguito l’Esecutivo raggiunse un accordo con Cisl e Uil, sottoscrivendo così il Patto per l’Italia, contenente l’ipotesi di modifica dell’articolo 18 al fine di «promuovere nuova occupazione regolare attraverso misure sperimentali – e perciò temporanee – che hanno l’obiettivo di incoraggiare la crescita dimensionale delle piccole imprese». A seguito del rifiuto della Cgil di firmare l’accordo e, soprattutto, in ragione dell’inasprimento del conflitto, il Governo scelse di stralciare la parte relativa alle modifiche del disposto dello Statuto dei lavoratori. 

La proposta di Cazzola, un nuovo tentativo di riforma
Il progetto di legge, presentato su iniziativa dei Deputati Giuliano Cazzola e Benedetto Della Vedova, si compone di un solo articolo che modifica il comma 5 dell’articolo 18 dello Statuto, estendendo anche al datore di lavoro soccombente in giudizio la facoltà di corrispondere un’indennità risarcitoria pari a quindici mensilità di retribuzione globale anziché dare corso al reintegro nel posto di lavoro. E’ fatta comunque salva la nullità dei licenziamenti discriminatori. In pratica, si tratta di aggiungere al comma 5 dell’articolo 18 della l. 300/1970 e successive modificazioni, dopo le parole «retribuzione globale di fatto», il seguente periodo: «Ferma restando la nullità dei licenziamenti discriminatori ai sensi di quanto stabilito dall’articolo 4 della legge 15 luglio 1966 n. 604, richiamato dall’articolo 3 della legge n.108 del 1990, è riconosciuta anche al datore di lavoro, soccombente in giudizio, la facoltà di corrispondere al prestatore di lavoro  una indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro».