Cosa non va nei toni dell’indignazione collettiva per la tragedia di Mario

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Cosa non va nei toni dell’indignazione collettiva per la tragedia di Mario

Cosa non va nei toni dell’indignazione collettiva per la tragedia di Mario

30 Luglio 2019

Gridare dinanzi all’ingiustizia è segno di sanità mentale ed una società che sa indignarsi è una società che non si rassegna. Beati gli afflitti, coloro che vivono sentendo aliena la logica del mondo, le soffocanti tenebre giovannee. La consolazione spetta a loro, gli è stata fatta una promessa!

Eppure, potrà pur dirsi, c’è qualcosa di sgradevole in certi toni dell’indignazione collettiva; qualcosa che la fa sembrare troppo spesso dozzinale e massimalista, tutt’altro che ingenua, perfino interessata.

Forse tutto sta nell’incapacità di affrontare la morte, avvenisse pure nella più tragica delle circostanze, col giusto silenzio. Non sembra esserci più posto per le lacrime, il raccoglimento che colma le distanze e affievolisce le divisioni. Il mistero non è più ammonimento, ma l’occasione liberatoria per urlare ovvietà nella forma più estrema e radicale, senza filtri di ragione e quindi, in sostanza, per non dire niente.

Forse tutto sta nel tentativo di dare ad ogni costo un colore alla tragedia. Impossessarsi di qualcosa che tocca invece il cuore di tutti: questo è un furto dei peggiori, perché fatto in odio al senso di appartenenza ad una comunità. Pensare che su una morte tragica si possa dire tutto illimitatamente, sulla base di qualche generica informazione scagliarsi contro il primo colpevole immaginario, o peggio si possa giustificare una vendetta spicciola: c’è qualcosa di inumano in questo, o forse di troppo umano.

Forse tutto sta nello scambiare per senso della giustizia lo sdegno rabbioso di un momento, pur certo comprensibile. Quello che vorrebbe giustificare o almeno derubricare la benda sugli occhi di un assassino ad un secondario accidenti scusabile, perfino ammissibile davanti all’immane tragedia di un giovane servitore dello stato morto, in maniera atroce, nell’esercizio del suo dovere.

Non è così e non può essere così. La viscerale repulsione per il male, il nobile sentimento di orrore davanti alle ingiuste tragedie non vale un urlo grottesco di condanna o il richiamo inutile alla “vergogna”, scritto a lettere cubitali su qualche accessorio virtuale. Niente di peggio potremmo immaginare se non quell’invito alla rivolta fatto ad adeguata distanza, inoffensivo quindi, senza costi e sacrifici.

La giustizia è continenza. E perfino quando vorremmo pur ricondurla alla forma dell’assoluto bilanciamento tra atto criminale e riparazione, il biblico “occhio per occhio e dente per dente”, la giustizia è sempre un invito a non andare oltre, a non travalicare.

Ad un assassino dobbiamo una condanna severa e pietosa commiserazione. Ma cosa dovremmo pur farcene dell’umiliazione del criminale?

Fosse un americano omicida fotografato bendato ed in manette, fosse Cesare Battisti, il più odioso tra i terroristi, appena sceso dall’aereo e trasformato in un trofeo umano, è da bruti pensare che la mortificazione di qualcuno, anche il peggiore tra gli individui, sia il farmaco per una comunità. «Togli il diritto e cosa distingue lo stato da una grossa banda di briganti?», ci direbbe Agostino d’Ippona.

Ecco appunto lo stato. Le sue istituzioni non possono unirsi a questa reazione sgangherata. Ad esse spettano le risposte. La revisione di quelle regole d’ingaggio che devono permettere alle forze dell’ordine, in situazioni come quelle di via Pietro Cossa, di utilizzare l’arma di ordinanza. Non c’è altro da dire.

In queste piccole contraddizioni sta tutto il limite della società di questa epoca. Il disagio dell’ingiustizia è posto al servizio delle proprie opinioni. Tante opinioni e poche idee, per opporre al male una inoffensiva condanna e non un’ortodossia dell’esistenza. Risolvere tutto nel contingente, nelle reazioni a freddo, nell’improvvisazione del momento, senza un Pantheon, senza un cielo, senza una morale della felicità. È questo un suicidio, per la politica come per l’umanità.

Onore, silenzio e preghiera per il sacrificio di un uomo con il Tricolore sul petto; onore a quegli uomini in divisa, usi obbedir tacendo e tacendo morir!