Cosa possiamo fare di buono per l’Europa
01 Aprile 2016
Per anni l’Italia è stata la nazione più europeista. Oggi siamo fra i più scettici. La realtà ci insegna che quando si passa da un estremo all’altro, probabilmente, c’è qualcosa che non va. Diciamo questo non perché ci piaccia, aprioristicamente, l’ideale europeo ma perché forse oggi si scaricano su questa idea fallimenti, frustrazioni e delusioni che hanno ben altra origine. Ad iniziare dall’incapacità della politica nazionale, in quasi tutte le sue salse.
Incredibile poi come l’Europa, nata anche per incapsulare la forza della Germania in un contesto più ampio, venga additata come lo strumento attraverso il quale la Germania unita stia imponendo, a scapito degli altri Paesi, la sua leadership sul resto del Continente. Che dire? Sembra un caso di scuola di eterogenesi dei fini. Ma scavando e guardando a ciò che in questi tempi globalizzati ruota intorno a noi dovremmo aver chiaro che senza un’Europa all’altezza della sua storia gli Stati nazionali del vecchio continente non hanno grandi prospettive e rischiano una progressiva marginalità.
Piaccia o non piaccia è così. Certo, a questa prospettiva ci si può anche adattare. In fondo dove sta scritto che l’Europa debba continuare a essere protagonista. L’Italia, ad esempio, al di là di slogan e chiacchiere che vanno da destra a sinistra, sembra già essersi adagiata su questa prospettiva. Una nazione con una curva demografica negativa, senza politica industriale, con scarsissimo peso e credibilità negli scenari internazionali, completamente dipendente sul piano energetico, senza una logistica di alto livello, scarsamente attrattiva nei confronti dei grandi investitori, senza, con qualche rarissima eccezione, grandi capitani d’industria ed un capitalismo nazionale in forte affanno ed un settore della ricerca abbandonato: la direzione del declino appare più chiara e netta dell’indicazione di un TomTom.
A queste considerazioni troppo spesso ridotte a qualcosa di secondario contrapponiamo la solita litania del turismo, del buon cibo, delle città d’arte, insomma la retorica del "Paese del sole" che secondo alcuni sarebbe sufficiente a sbloccare l’Italia, facendola ripartire. Come se la nostra forza nel settore manifatturiero possa vivere solo di mandolino, gondole e pummarola n’coppa. Una vera tristezza che parla di una nazione disarticolata, preda di luoghi comuni e di una cultura evanescente che permea oramai tutti gli schieramenti politici, senza alcuna eccezione. Nel Centrodestra, basta vedere quali sono le posizioni di forze politiche come Fratelli d’Italia su alcuni dei temi strategici che abbiamo poc’anzi citato. Il nulla,vacuità allo stato puro.
Se il quadro complessivo di alcune nazioni è decisamente migliore, vedi la Germania, non crediamo che questa situazione alla lunga possa reggere. Le sfide nelle quali già oggi siamo immersi sono tali e su una molteplicità di piani rispetto ai quali solo una Europa capace di fare massa critica può cercare di dare risposte. Forse, per assurdo, ciò che ci può salvare sono proprio quelle emergenze che ci potrebbero progressivamente spingere ad unire in alcuni settori le risorse dei singoli paesi. E così come si creò la CECA per il carbone e l’acciaio per evitare che rispetto a queste risorse strategiche la Germania dell’immediato dopoguerra potesse essere egemone, si potrebbero gestire attraverso organismi sovranazionali ambiti particolarmente sensibili.
D’altra parte non sembra che la via degli accordi tra stati abbia quella celerità, operatività e disponibilità in grado di fare fronte alle emergenze incalzanti. Creare degli embrioni di importanti politiche comuni attraverso organismi terzi può essere quindi la strada giusta per cercare di ovviare alla lentezza di Stati che nel loro immobilismo rendono inabile o scarsamente efficace qualsiasi possibilità di azione concreta.