Cosa resta della promessa di Obama di chiudere Guantanamo?

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Cosa resta della promessa di Obama di chiudere Guantanamo?

15 Ottobre 2010

A poche settimane dall’appuntamento del Midterm (il voto di metà mandato che rappresenta il giudizio sull’operato dell’Esecutivo), il presidente Obama deve fare i conti con una delle promesse elettorali mai mantenute che d’altronde, nel 2008, lo portarono dritto dritto alla Casa Bianca: la chiusura di Guantanamo. I sigilli al carcere di massima sicurezza significavano infatti la svolta di Obama nella politica antiterroristica americana dall’11 settembre 2001 in poi, con un cambio di rotta radicale rispetto a Bush figlio. Ma dopo due anni e mezzo di gestione, cos’è rimasto dell’impegno con gli americani?

“Non possiamo continuare a tradire i nostri valori, la nostra Costituzione e a calpestare lo stato di diritto”, aveva declamato in più occasioni l’allora senatore dell’Illinois. “La detenzione a tempo indeterminato di sospetti terroristi ha compromesso i nostri valori più preziosi”, ha ripetuto durante la sua Amministrazione. Il 21 gennaio del 2009, come prova che avrebbe mantenuto la sua parola, Obama ha anche firmato l’ordine di chiusura del carcere con un termine ultimo: il gennaio del 2010. A quasi due anni dall’annuncio, però, la promessa del presidente americano si è invece rivelata una vera e propria “failure to deliver” e, se il prossimo novembre venissero confermate le previsioni di vittoria dei repubblicani, è quasi scontato che ogni possibilità di chiusura si concluderebbe in un nulla di fatto.

E’ stato lo stesso presidente Usa – quello che ripeteva fino all’esaurimento che “Guantanamo è un carcere illegale” – a riconoscere pochi giorni fa che nei suoi proclami si era affrettato forse un po’ troppo: “La scadenza è già passata, è vero. Ma non è per mancanza di volontà, bensì per la difficoltà di realizzare il progetto”. Intanto, i malumori iniziano a moltiplicarsi su più fronti: non solo da parte di chi da sempre ha sostenuto la chiusura del carcere ma anche da parte di chi considera Guantanamo l’unica soluzione alla detenzione di terroristi; c’è chi vuole che il processo sia fatto quanto prima e chi considera la sua realizzazione una minaccia all’America. I problemi vanno anche al di là delle frontiere degli Stati Uniti. Molti governi stranieri che hanno accettato di accettare sul proprio territorio i detenuti di Guantanamo ora si trovano infatti a fare i conti con avvocati e gruppi di difesa dei diritti umani che vogliono portare a processo l’Amministrazione Usa e altri leader per i casi di tortura; e, nonostante le richieste di estradizione, il Governo americano ora si è reso conto che un buon numero di detenuti dovrà restare per forza in territorio americano perché cittadini di un Paese nemico degli Stati Uniti o perché perseguitati (come nel caso dei 17 cinesi di etnia Uiguri).

Guardiamo però ai fatti. Finora sono appena 66 i detenuti rilasciati da Guantanamo dal Governo americano dall’elezione di Obama. Cinquecento, invece, quelli scarcerati dall’Amministrazione Bush nonostante le molteplici critiche per il pericolo di ritorno nelle fila della jihad. Polemiche che, secondo quanto dimostra un recente studio del Pentagono, erano fondate: circa il 10 per cento dei detenuti rilasciati è tornato a combattere o a svolgere attività militante in organizzazioni terroristiche e un altro 10 per cento è sospettato di farlo. (Un caso emblematico è quello delle menti che hanno organizzato l’azione dinamitarda di Umar Faruk Abdulmutallab – il nigeriano di 23 anni che il giorno di Natale ha tentato di innescare materiale esplosivo a bordo del volo Delta-Northwest da Amsterdam a Detroit – e che avevano pianificato anche un attacco con camion bomba all’ambasciata americana di Sanaa. Tutti loro erano ex prigionieri di Guantanamo consegnati alle autorità yemenite).

Dopo aver inviato all’estero una sessantina di detenuti, l’attuale popolazione del carcere di massima sicurezza è di 174 persone, molti dei quali si trovano a Guantanamo dal gennaio 2002. Un centinaio dovrebbero essere trasferiti al Thomson Correctional Center, nell’Illinois, un centro di detenzione che necessita di ampi lavori di miglioramento prima dell’arrivo di questi “ospiti speciali” e che, secondo le previsioni, non sarà attivo prima di ancora qualche anno. A ritardare il trasferimento, s’è pure aggiunta la mancata approvazione dei finanziamenti da parte del Congresso.

Ma anche se il trasferimento nel carcere sul Mississippi dovesse avvenire in tempi rapidi, ci sono altri scogli da superare. Il primo: degli attuali inquilini di Guantanamo, 48 si trovano in un limbo giuridico. Secondo una legge approvata nel 2009, il trasferimento in territorio americano di detenuti è condizionato alla realizzazione di un processo giudiziario. Questi detenuti però, per la natura dei loro crimini e per la mancanza di prove, sono stati condannati a una “detenzione di lungo periodo”, e quindi senza un processo. D’altro canto, essi non possono neanche essere liberati perché considerati troppo pericolosi. A questo si aggiunge la legge che il Senato Usa starebbe per approvare e che proibirebbe l’invio di detenuti in Paesi dove c’è una grande presenza di Al Qaeda, come per esempio lo Yemen. A questo punto si porrebbe la questione di cosa fare, per esempio, con i 57 detenuti eleggibili – di nazionalità yemenita – che né possono essere espatriati né possono essere trasferiti in un carcere americano. Per tutte queste ragioni, Guantanamo potrebbe restare per sempre aperta.

Si sommano poi le incertezze sul quadro normativo di riferimento per i circa 40 prigionieri a cui è arrivato il via libera per il processo. Al centro, la diatriba se per portare davanti alla giustizia i detenuti di Guantanamo siano meglio i tribunali militari  (giustizia militare) o quelli civili (giustizia ordinaria). Questioni tecnico-legali a parte, in gioco c’è niente meno che la protezione delle fonti di Intelligence e del materiale classificato dal Governo, ma anche la riapertura dei fascicoli sui metodi che hanno permesso di catturare gli esponenti di Al Qaeda poi detenuti a Guantanamo (tra cui anche le torture realizzate sui detenuti e riconosciute dallo stesso Pentagono che, di fatto, potrebbero comportare l’annullamento del processo) e la ridefinizione di termini giuridici di uso nazionale e internazionale (crimini di guerra, l’applicazione delle Convenzioni di Ginevra, giusto processo, tra gli altri).

Ancora. Nei casi in cui è stato dato il via libera al processo, non sono mancate le polemiche per questioni di sicurezza nazionale. Il caso più eclatante e rappresentativo dell’impotenza in cui si trova il Governo Usa è quello del processo civile alla "mente" degli attentati alle Torri Gemelle, Khalid Sheik Mohammed, e agli altri 4 presunti terroristi. Dopo un primo trionfale annuncio sul maxi-processo a New York, a pochi passi da Ground Zero, il Governo ha fatto retromarcia sia per questioni di sicurezza (principalmente per la paura di nuovi attentati), sia per questioni economiche (il loro trasferimento nella Grande Mela avrebbe richiesto dei costi eccezionali – stimati in 200 milioni di dollari l’anno – per la sicurezza e per la logistica) che per questioni simboliche (il processo davanti ad una corte civile, di fatto, nega che gli attacchi siano stati “atti di guerra”). All’udienza di New York non solo si sono opposti i repubblicani e i molti comitati cittadini che hanno organizzato manifestazioni e sit-in, ma si è messo di traverso anche il sindaco indipendente Michael Bloomberg. Secondo certe indiscrezioni riportate dal Washington Post, poi, alcuni consiglieri di Obama avrebbero avanzato la proposta di fare processare Khalid Sheik Mohammed da un tribunale militare, opzione da sempre sostenuta dall’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani.

Il timore più diffuso nei corridoi del Pentagono, a quanto pare, è che sia necessario un nuovo e sanguinoso attacco terroristico per mettere d’accordo tutto il mondo politico sul modo in cui trattare i terroristi ex detenuti di Camp Delta. “I Democrats sono terrorizzati dall’idea di aprire la questione di Guantanamo e la maggior parte dei Republicans fanno solo demagogia”, ha detto qualche giorno fa Lindsey Graham, senatore repubblicano per il South Carolina. Forse è per questo che l’Amministrazione Obama ha cercato di risolvere gran parte del problema sbarazzandosi di quanti più detenuti possibili: 66 di loro hanno passato il vaglio dell’Intelligence Usa, il Dipartimento di Difesa e quello di Giustizia, e sono stati designati al rimpatrio o al riallocazione in altri Paesi. Finora sono 31 i prigionieri che sono stati destinati in Europa – in Francia saranno 4; in Spagna 3, più altri 2 la cui posizione non è ancora stata chiarita; 2 in Belgio; 14 in Gran Bretagna; 2 in Portogallo; 1 in Ungheria; 2 in Irlanda e 2 in Germania. La Bulgaria sì è detta pronta ad accoglierne massimo due e la Svizzera dovrebbe accogliere un uzbeko e altri due detenuti. Dall’Austria, dalla Repubblica Ceca e dall’Estonia è giunto invece un secco rifiuto –, ma ancora un terzo di loro deve essere di fatto trasferito. 

A ritardare gli espatri, probabilmente, anche i mille problemi legali e i cavilli burocratici che comporta avere sul proprio territorio dei detenuti così “speciali”. E’ il caso, per esempio, delle autorità polacche che si sono viste recapitare sul tavolo la richiesta di aprire un’inchiesta sul presunto rapimento e sulle torture subite da Abd al-Rahim al-Nashiri in una delle prigioni della Cia in Polonia. Ma anche se l’investigazione dovesse proseguire il suo corso, i giudici polacchi si troverebbero le porte sbarrate dei tribunali e del Governo americani, come d’altro è già accaduto. Altri invece hanno nel mirino precisi personaggi: come Binyam Ahmed Mohamed, un etiope residente in Gran Bretagna ed ex detenuto di Guantanamo che ha fatto causa, tra gli altri, anche all’ex ministro Tony Blair perché “sapeva che gli Stati Uniti stavano maltrattando e torturando i cittadini britannici, ma non ha seriamente protestato al riguardo”.

Gli unici cambi che sembra aver fatto l’Amministrazione Usa a Guantanamo sono quelli adottati nei confronti dei giornalisti. Il Dipartimento di Difesa ha infatti approvato regole più distensive sulla copertura mediatica nella prigione di alta sicurezza in modo da ricucire i rapporti tra il Pentagono e i media. Tra le altre cose, i reporter non potranno più essere espulsi da Guantanamo se vengono ottenute informazioni riservate al di fuori del centro di detenzione e il contenuto delle macchine fotografiche non potrà essere automaticamente cancellato in caso di “materiale protetto”. Un gesto sicuramente significativo mirato a migliorare l’immagine internazionale di Camp Delta, ma che risolve ben poco la questione di fondo: cioè cosa fare con i detenuti di Guantanamo.

Malgrado il caos in cui si trova il governo americano, in questi giorni è cominciato il primo processo civile a Manhattan contro un ex detenuto del carcere di massima sicurezza: quello di Ahmed Ghailani, un cittadino della Tanzania accusato di essere responsabile di due attacchi contro ambasciate americane in Africa, con oltre 200 vittime. In apertura di udienza, il giudice del tribunale Lewis Kaplan aveva deciso di non autorizzare un testimone chiave a prendere la parola, accettando le richieste della difesa. Kaplan aveva rinviato l’apertura del processo al 12 ottobre, per dare tempo all’accusa di decidere se presentare appello contro la sua decisione, ma il Governo ci ha rinunciato. Forse aveva ragione il senatore repubblicano Kit Bond quando, criticando la scelta di Bush di rilasciare 500 detenuti, affermò che “Guantanamo rimane il posto migliore e più umano per i sospetti di terrorismo”. L’unica cosa chiara fino ad oggi è che con la promessa della chiusura del carcere cubano si è aperto un vaso di Pandora che sembra non avere fondo e che difficilmente l’Amministrazione Obama riuscirà davvero a chiudere.