Così è il calcio. Quando il mito non diventa realtà

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Così è il calcio. Quando il mito non diventa realtà

05 Giugno 2011

Gli italiani sono un popolo di sognatori, si sa. È per questo che amano il calcio. Perché lì, passare dai fasti alla polvere, è questione di un attimo. Così è il calcio. E se lo si ama, c’è poco da fare. Tanto vale accettarlo. Anche perché, ogni volta, si rimane sorpresi come se fosse la prima. Qualche giorno fa, l’ennesimo scandalo sul calcio scommesse. Truffe da centinaia di migliaia di euro. Addirittura giocatori drogati dai loro stessi colleghi. Una notizia che non fa male solo al calcio, non solo allo sport.

Il perché è chiaro, quando per un paese come il nostro si ha l’impressione che tutto passi prima da un rettangolo erboso. Prima ancora che in parlamento, che nelle strade, che nelle case. Uno “specchio” verde in cui la nostra italica società si riflette in tutte le sue sfaccettature. E chi in quel rettangolo ci lavora, diventa facilmente un simbolo. Chi dimostra di essere il più forte, poi, ancor più facilmente si trasforma in un mito, che in quanto tale smette di avere una dimensione umana. Diventa piuttosto una specie di eroe, pronto a splendere come se non dovesse più smettere per poi inabissarsi all’improvviso. Essere dimenticato. Scomparire.

Questo era, questo è stato Giuseppe Signori. Una carriera eccezionale, 273 gol di cui 127 solo nella Lazio. Dal 1993 al 1996 fu per tre volte consecutive capocannoniere della Serie A. I tifosi lo amavano a tal punto che nel 1995, quando fu annunciata la sua cessione al Parma, scesero per le strade della capitale per protestare, al grido di “E segna sempre lui…” e di “Signori si nasce” (con chiari riferimenti alla sobrietà e all’umiltà dell’attaccante, caratteristiche che avevano conquistato il cuore dei fan), mandando a monte l’intera trattativa.

Sedici anni più tardi, Signori si ritrova invischiato in un pesante scandalo che lo fa finire agli arresti domiciliari. Al di là delle sciocchezze campanilistiche di chi addirittura si dice contento dell’accaduto, è impossibile negare che per qualsiasi sportivo si tratti di uno shock. Tanto che verrebbe da interrogarsi (come al solito in questi casi), se non sia il caso di lasciar perdere una volta per tutte quello che, più che uno sport, è diventato una fabbrica di delusioni. Ma poi, a pensarci bene, di scandali ce ne sono stati e ce ne saranno sempre. Di grandi calciatori ce ne sono stati e ce ne saranno pochi. E, come avviene per tutti gli eroi, quello che hanno dato in campo, resterà sempre.

È per questo che, seppure con una certa tristezza, mentre leggevo delle brutte notizie che lo riguardavano, non pensavo al Giuseppe Signori che oggi viene descritto sui giornali. Non al Signori accusato di essere a capo di una “banda” di truffatori. Non al Signori malato del gioco d’azzardo, che chiede pietà ai giornalisti, prima di entrare in questura per essere interrogato dai magistrati.

Ma a quel giovane capitano, che nonostante il suo modesto metro e settanta di statura, rimaneva fermo, con fare solenne, immobile davanti al pallone, prima di tirare un rigore, facendo tremare il portiere di turno, ben più imponente di lui. Piccolo ma immenso allo stesso tempo, Beppe Signori. Quello che, senza prendere la rincorsa, con determinazione, scagliava la palla nell’angoletto in basso con un sinistro micidiale, con una forza fuori dal comune per uno della sua stazza. E che correva a perdifiato ad abbracciare i tifosi. Fu così che il 23 aprile del 1995 segnò il due a zero che diede alla Lazio la vittoria nel derby contro la Roma. Fu il suo solito tiro, la sua solita corsa sotto la curva. Con un salto riuscì ad aggrapparsi sugli alti vetri che lo dividevano dai suoi tifosi. Allora, io avevo dieci anni. Stavo lì, impazzito di gioia davanti alla televisione, emozionato fino alle lacrime. Adoravo (letteralmente) quello spettacolo di onnipotenza che il mio indimenticabile e incorruttibile mito stava offrendo al mondo intero. E per me, Beppe Signori, il calcio, è sempre rimasto quello. E lo è anche oggi. Vabbè, il calcio è così. Lo si ama o lo si odia. E noi, che siamo sognatori, non abbiamo scelta.