Così l’Europa ha perso la fede nella propria civiltà
11 Giugno 2011
Quest’anno i leader di Francia e Gran Bretagna hanno dichiarato che le rispettive politiche nazionali improntate al multiculturalismo non hanno avuto successo. E proprio come accadde, un anno fa, ad Angela Merkel quando disse la stessa cosa, anche Nicolas Sarkozy e David Cameron hanno scatenato una tempesta politica.
Il dibattito europeo sul multiculturalismo, e sul modo di gestire l’immigrazione extraeuropea, non potrà che intensificarsi mano a mano che la primavera araba dispiegherà i suoi effetti anche sul vecchio continente. Ma è bene fare un passo indietro e ricordarsi come siamo arrivati a questo punto: al punto che, per un leader occidentale, affermare il primato della propria cultura equivale a sollevare un vespaio. In definitiva: com’è accaduto che l’Europa abbia perso la fede nella propria civiltà?
Nella sua forma moderna, la nobile inclinazione europea all’autocritica è spesso degenerata in una sentimentalistica autoflagellazione. Si pensi all’Africa, il cui sottosviluppo è da tanti attribuito a colpe dell’Occidente. E’ su tale senso di colpa che vivono gli aiuti occidentali al continente nero. Però la domanda da farsi non è “perché i paesi poveri sono poveri”, bensì “perché i paesi ricchi sono ricchi?”. All’inizio, anche noi eravamo poveri.
Chiunque voglia studiare l’ascesa dell’Occidente e le radici della nostra prosperità deve risalire al Rinascimento, se non all’epoca classica. La colonizzazione dell’Africa non vi ha nulla a che fare; l’interno del continente restò inaccessibile fino alla fine del Diciannovesimo secolo. I colonizzatori europei arrivarono in tarda epoca anche nel Nord Africa e in Medio Oriente, che per diversi secoli restò sotto controllo ottomano. L’Europa non è più responsabile del sottosviluppo africano di quanto Roma lo fu per il sottosviluppo della Gallia.
Tanta gente poi nutre grande simpatia per il popolo palestinese. Ciò è comprensibile, perché la situazione di quella gente, innegabilmente, ispira pietà. Ma chi si preoccupa della sorte dei cristiani in Medio Oriente? La loro situazione è pietosa quanto quella dei palestinesi, se non di più.
Almeno il dieci per cento della popolazione egiziana è cristiana (copta). E’ vittima di repressione, molti dei suoi membri vivono in miseria. Le minoranze cristiane in Siria, Iraq, Pakistan sono ugualmente discriminate. In Somalia, gli islamisti danno la caccia a chiunque possegga una Bibbia. Eppure nessuno, in Europa, sembra agitarsi per questi crimini. La cristianità appare, in Europa, come una forza ormai spenta, con l’eccezione di Polonia e Irlanda. Ma per i cristiani che vivono in Asia, Africa, Arabia e nel resto del mondo, il cristianesimo non è l’anemica religione che è diventata qui. I cristiani del terzo mondo hanno tutte le ragioni di sentirsi abbandonati.
E se nutrissero qualche dubbio residuo sull’importanza del cristianesimo nell’attuale Occidente, questi cristiani extraeuropei non dovrebbero fare altro che guardare a posti come l’inglese Oxford, dove la giunta municipale ha deciso di rimpiazzare il Natale con un “Festival delle luci”. Il motivo, come ha spiegato un portavoce del municipio, è quello di garantire parità di trattamento a tutte le religioni.
Gli europei non hanno sempre provato un tale odio nei propri confronti. Il Diciannovesimo secolo fu l’apogeo dell’imperialismo, e l’Europa traboccava di fiducia in se stessa. Cosa accadde in seguito? Lo scorso secolo vide il cataclisma della Prima guerra mondiale, l’ascesa delle dittature nel periodo tra le due guerre, la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto, lo stalinismo e il caos sociale del ’68. Questi eventi hanno corroso le nostre certezze e aperto la strada all’era del multiculturalismo, che ci esorta a “non giudicare” chi è diverso da noi.
L’altro fondamento del nostro attuale masochismo risiede, ironia della sorte, proprio nel cristianesimo che le nuove generazioni sono così ansiose di mettere da parte. Perché, piaccia o no, la nostra civiltà resta profondamente ancorata al cristianesimo. Si pensi al Vangelo di Matteo, che recita: “Chiunque esalti se stesso resti umiliato, chiunque si mantenga umile venga esaltato” (23:12). Friedrich Nietzsche, riferendosi a questo e a passi similari, parlava di “morale da schiavi”. Non c’è bisogno di arrivare a tali estremi per accorgersi che un motto del genere, insieme a precetti come “porgi l’altra guancia” o “occorre fare di più” non sono il massimo per infondere nella gente l’istinto di ergersi a difesa di ciò in cui si crede.
Se la civiltà islamica può essere definita come la cultura della vergogna, quella cristiana può essere definita come quella del senso di colpa. Si ascolti la “Passione secondo san Matteo” di Bach, dove il coro – cioè la gente – canta “Sarò punito per quel che tu [Cristo] hai fatto”, e poi “Tu non sei un peccatore, come me e i nostri bambini”. L’orgoglio si mescola al rimorso negli europei, che sono eccessivamente inclini a guardare la pagliuzza nei loro occhi, piuttosto che la trave in quello degli altri.
Questa impostazione mentale non sarebbe un problema, se il peso sulla coscienza potesse venire espiato, perdonato, confessato, insomma sanato in una delle tante forme liturgiche con cui un fedele viene perdonato per i suoi peccati. Teoricamente, tanto il cattolicesimo quanto il luteranesimo provvedono all’espiazione della pena; però queste tradizioni non hanno più credibilità in Europa. Il senso di colpa non viene più sublimato. Ciò è tanto più vero per il calvinismo, che nella sua forma più rigorosa non prevede alcuna remissione per i peccati, nella vita terrena. I suoi effetti sono penetrati a fondo nella coscienza dell’Europa, tanto da sopravvivere alla dottrina.
Si arriva così al 1996, quando il governo olandese dichiarò che “il dibattito sul multiculturalismo deve essere basato sul principio che tutte le culture vanno messe sullo stesso piano”. E così è stato, per anni. Nel 2002 il politico di destra Pim Fortuyn venne assassinato; si era in piena campagna elettorale. Tre mesi prima, Fortuyn aveva lanciato un appello perché nella Costituzione olandese venisse rimosso un articolo anti-discriminazione.
Il giorno dopo il suo omicidio, l’editore dell’NRC Handelsblad, uno dei principali quotidiani olandesi, scrisse che “l’orgoglio degli olandesi risiede proprio nel fatto di non ritenere una cultura superiore ad un’altra”. Chi scriveva sembra non si sia accorto che il suo orgoglio metteva la cultura olandese sopra altre culture – per esempio, quella basata sui valori nazionali.
E nel 2009, quando il teologo dell’Università di Utrecht Pieter van der Horst volle dedicare il suo discorso di apertura dell’anno accademico alla “Islamizzazione dell’antisemitismo europeo” l’istituzione gli vietò di parlare, lasciando così che il timore di dispiacere agli islamici prevalesse su un diritto almeno apparentemente garantito, in Olanda: la libertà di parola.
L’effetto combinato del senso di colpa cristiano e dell’odio che sembriamo nutrire verso noi stessi può essere avvertito in tutto il mondo, ed è stato rilevato da altre culture e prontamente usato contro l’Europa. Dopo la Seconda guerra mondiale l’Occidente architettò le Nazioni unite, in parte per indebolire la propria egemonia. Nel giro di trent’anni, all’Onu si è formata una maggioranza che automaticamente attacca l’Occidente e Israele. Il Consiglio Onu per i diritti umani, che ha sede a Ginevra, elesse il colonnello libico Gheddafi a far parte dei suo membri, dandogli modo di fare il giudice dello stato delle libertà civili in tutte le nazioni del mondo.
Per tredici anni, l’organizzazione Onu per l’educazione, la cultura e la scienza – l’Unesco – è stata guidata dall’insegnante senegalese Amadou-Mohtar M’Bow, un personaggio dai feroci sentimenti anti-occidentali dietro cui c’era l’Unione sovietica, il quale guidava l’organizzazione come se fosse un villaggio tribale africano. Nel 1984 gli Stati Uniti ne uscirono, e un anno dopo fecero lo stesso Regno Unito e Singapore. I paesi dell’Europa continentale invece restarono, e si lasciarono debitamente castigare.
E’ un bene che una manciata di leader stia adesso cercando di invertire la marea del nostro lento suicidio culturale. Se l’Europa riesce a riacquistare l’orgoglio delle sue tradizioni e dei suoi valori, per lei e per il mondo sarà un gran beneficio.
Frits Bolkestein è un ex esponente politico della destra olandese, già commissario europeo per il mercato interno e i servizi.
©The Wall Street Journal
Traduzione Enrico De Simone