Così Zalone ha “fregato” destra e sinistra
07 Gennaio 2020
Una premessa prima di entrare nel merito di questa recensione è doverosa: chi scrive ama molto il cinema ma molto poco Zalone, benchè quest’ultimo sia considerato ormai da tempo un vero eroe del grande schermo nazionale. Quest’introduzione aiuta a capire lo scetticismo iniziale nell’andare a vedere Tolo Tolo, l’ultimo “capolavoro” dell’attore, questa volta in una doppia veste di protagonista e regista del film. La pellicola è già campiona di incassi in Italia ed è stata accompagnata da una calcolatissima polemica politica, studiata ad arte dagli autori fin dal trailer, congeniato per dare l’impressione di averci portato al cinema la prima opera comica in salsa sovranista. Ovviamente la cosa era impensabile in un Paese come il nostro, dove ogni opera artistica (non solo cinematografica) passa per un attento vaglio da parte di intere generazioni di intellettuali di sinistra conservatrice prima di arrivare al grande pubblico. La trappola quindi in effetti è riuscita e ancora una volta ha permesso ai nostri commentatori di ridere di quel volgo ignorante che oggi vota Salvini, ieri votava Berlusconi e forse ancora prima DC, non passando mai il travaglio interiore di eventi traumatici come la Perestroika o la nascita dell’Ulivo. Tolo Tolo non poteva quindi essere un film sovranista sotto nessun punto di vista, ma stranamente (e qui sta il suo pregio) non è neanche un’opera “buonista”, intendendo con questo termine quella melensa lezioncina morale di banalità che chiunque fino a questo momento ci ha rifilato affrontando artisticamente il tema dell’immigrazione. Al contrario il film contiene in sé diversi spunti di riflessione, riuscendo ad evitare quasi sempre passaggi troppo banali o evoluzioni di trama scontate. Proprio la trama è il primo pregio della pellicola che a ben vedere funziona, dando tutti i presupposti comici per le due ore che seguiranno: Checco Zalone, imprenditore di ben poco successo in Puglia, cerca la sua fortuna in Africa ma è costretto a fuggirne per tornare in Europa in seguito ad una guerra civile che scoppia davanti ai suoi occhi nella città in cui era ospite. Il protagonista è quindi portato (ma non costretto come gli altri) ad affrontare il “grande viaggio” verso l’Italia, prima meta di una promessa di civiltà e felicità alla quale tutti credono tranne lui. In questo percorso Zalone incontrerà ovviamente l’amore, la sofferenza, la gioia e anche l’inganno, riuscendo alla fine a riapprodare al suo Paese d’origine. Differentemente da quello che si potrebbe pensare tuttavia questo percorso e questo viaggio, ribaltando tutti i canoni del genere, non porta al protagonista nessun arricchimento interiore, nessuna curiosità, nessuna comprensione di ciò che vede o di ciò che sente. Zalone è Tolo Tolo, ossia “solo, solo”; totalmente isolato in un suo mondo di cinismo e menefreghismo che si incrina solo raramente per un bambino che il protagonista prende particolarmente a cuore.
Se Zalone è lo specchio dell’italiano medio, come è stato detto in lungo e largo, l’analisi allora è impietosa: ignorante, superficiale, egoista e totalmente cinico, l’italiano di Zalone ha visto poco e immaginato molto, tanto da non essere mai sorpreso nè dalle gioie nè dai dolori, ugualmente pronto ad essere quasi divinizzato in un villaggio africano o a morire di stenti nel deserto. Il protagonista affronta qualsiasi avvenimento o sentimento con un relativismo e un utilitarismo sfrenato, in fuga dalla sua famiglia, dalla sua terra e da tutto ciò che gli impedisce di realizzarsi nella vita. I suoi amici e famigliari non sono del resto da meno, ansiosi di liberarsi di lui e stretti in una dinamica di tasse, lotte per l’eredità, inefficienza politica e incompetenza che ben conosciamo. Il tema delle migrazioni è quindi raccontato con una certa superficialità, fermandosi ad una sequela di fatti nel quale semplicemente Zalone si ritrova e la cui causa non desta alcuna curiosità nè nel protagonista nè nello spettatore (tra gli altri la tratta dei migranti, i campi di detenzione, le ONG e i barconi verso l’Italia). Tutto avviene automaticamente nella sua drammaticità muovendosi “intorno” all’attore ma senza toccarlo veramente, e di conseguenza senza in realtà chiedere un vero sforzo di comprensione da parte del pubblico. Ciò che è oggettivamente piccolo, come il buon gusto e la buona cucina, è centrale per Zalone, mentre i grandi fenomeni del mondo sono eventi già visti che non possono far altro che ripetersi.
Il cinismo del protagonista nel quale lo spettatore non può evitare di rispecchiarsi, almeno in minima parte, tiene unito l’elemento comico fino alla fine, con qualche concessione al politicamente corretto che spezza un poco la narrazione ma era inevitabile per i motivi di cui sopra. Un caso su tutti è il riferimento al fascismo: poco simpatico, molto forzato in tutte le scene, incoerente con la trama e la personalità di Zalone ma accettato con rassegnazione dagli spettatori come il prezzo da pagare per aver girato un film di questo genere. Il fascismo è anche ovviamente il tema più sottolineato dalle recensioni dei principali quotidiani, a dimostrazione della furbizia del comico pugliese ad utilizzare anche la presunta intelligenza dell’intellighenzia come arma commerciale. In realtà Mussolini c’entra ben poco con Tolo Tolo e il razzismo ben poco con i temi che tocca il film, molto più in continuità con Miniero, Sibilia e ovviamente Nunziante che con qualsiasi regista più impegnato.
Interessanti sono invece da un punto di vista registico le parentesi musicali con le quali si spezza la storia e che servono come espediente per evitare un effetto agrodolce nelle scene più forti, aggirando il rischio di prendere in contropiede lo spettatore andato al cinema per vedere un film natalizio. Questo escamotage anche se intelligente non è privo di sbavature, non da ultimo contenutistiche, come nella canzoncina finale (molto simpatica) in cui Zalone tenta forse per l’unica volta di dare una sua lettura ai problemi ai quali abbiamo assistito durante il film. Il messaggio non poteva che essere semplicistico e fanciullesco, adatto ai bambini che ne sono i destinatari ma non agli adulti, i quali si accorgono di come il regista non abbia gli strumenti per uscire fuori da un determinismo con un retrogusto vagamente provinciale (l’Africa è maledetta, l’Europa benedetta). Ma in fondo la cosa non infastidisce visto che come detto il film non è evidentemente incentrato sulla geopolitica o sulla complessità morale, ma si limita a ripercorrere una linea di autocritica all’italiana maniera che abbiamo già visto tante volte. Il consiglio è quindi certamente quello di andare a vedere il film, leggendolo come un leggero intrattenimento che prende spunto dall’attualità e gioca con la politica per parlare di noi, del modo in cui spesso siamo ma non vorremmo essere. Lasciare questo film piacevole e oggettivamente divertente all’interpretazione di qualche critico pronto a vederci un incrocio tra Fellini e Mati Diop è come far vincere il nobel al francese Alexandre Lemaitre (l’ unico antagonista di Zalone nell’opera). E noi che siamo così pronti a riconoscere i nostri difetti ma sappiamo che tra questi non rientra la falsità non possiamo permetterlo.