“Countdow Zero”, non è con la paura che avremo il disarmo atomico
23 Luglio 2010
Qualche secondo dopo le 2.26 antimeridiane del 3 giugno 1980, sui monitor del centro di comando dello Strategic Air Command, nel Nebraska, apparve all’improvviso il messaggio secondo due missili balistici intercontinentali erano stati lanciati da due sottomarini, e puntavano sugli Stati Uniti. Diciotto secondi dopo questo primo allarme, i monitor segnalarono altri lanci. Il comandante di turno ordinò ai piloti dei bombardieri B-52 ed FB-111 di salire a bordo e avviare i motori. Il comandante fece quindi un controllo con il North American Air Defense Command (Norad) in Colorado, che gestisce i satelliti e i radar che sorvegliano lo spazio aereo nordamericano. L’ufficiale comandante al Norad disse che, in quel momento, non c’era alcun segno di missili in arrivo. Dopo di che, i segnali d’allarme scomparvero anche dagli schermi dello Strategic Air Command. Ai piloti venne detto di spegnere i motori, ma di restare sugli aerei.
Passò un breve periodo di tempo, e di nuovo si riaccesero i segnali d’allarme del SAC, segnalando altri lanci di missili balistici intercontinentali contro gli Stati Uniti. Subito dopo, lo stesso allarme apparve sui monitor del comando centrale militare di Washington, al Pentagono. I responsabili di entrambi i comandi sospettavano, a questo punto, che si trattasse di un errore. In quello del Pentagono una riunione d’emergenza per capire quel che stava accadendo, e alla fine tutti i comandi vennero avvertiti che non esistevano segnali reali di un attacco missilistico in corso. I piloti tornarono nelle caserme. L’allarme era terminato.
Ma cosa era accaduto? Tre giorni più tardi, alle 3.38 pomeridiane del 6 giugno 1980, si ripeté lo stesso errore. Anche questa volta, nessun missile venne rilevato dai satelliti o dai radar, ma soltanto sui circuiti elettronici del Norad. Si scoprì che i falsi allarmi erano stati provocati da un’avaria nel chip di un computer del sistema di comunicazione del Norad. Il messaggio che questo computer mandava in situazione di pace doveva essere composto dalle cifre 000, che indicavano l’assenza di missili in arrivo. Il chip malfunzionante aveva invece iniziato a inserire su base random la cifra 2, e il messaggio che si generava dava l’indicazione di due o duemila missili in arrivo. Quel chip era grande quanto una monetina, e costava 46 centesimi.
Si tratta solo di una tra le tante storie inquietanti dell’era atomica che un nuovo film documentario, “Countdown to Zero”, nei cinema a partire dal 23 luglio, riporta adesso sotto i riflettori della cronaca. La pellicola, della durata di 91 minuti, scritta e diretta da Lucy Walker e prodotta da Lawrence Bender, ha l’evidente scopo di farci impressione. E’ un calderone di scene forti e angoscianti, che termina con un appello del movimento Global Zero: le armi atomiche vengano distrutte, tutte. L’incidente del 1980 è noto da tempo, ma riesce sempre a sorprendere – forse perché ha catturato in maniera tanto vivida la mentalità della Guerra Fredda. L’episodio, nel film, è raccontato da Bruce Blair, oggi presidente del World Security Institute di Washington, che nel 1970 era ufficiale addetto al lancio dei missili Minuteman e che adesso è produttore esecutivo di “Countdown”. Quel falso allarme, dice Blair, provocò “otto minuti di preparazione al lancio dei missili, scattata a causa del cattivo funzionamento di un chip che costa meno di un dollaro”.
“Countdown” è pieno di episodi del genere. Bombe atomiche che cadono da aeroplani per errore, miserabili che tentano di smerciare uranio, tecnologia atomica sparsa per il mondo dal padre di tutti i proliferatori, il pakistano A.Q. Khan. Forse l’ episodio più inquietante, ancora poco conosciuto, è quello del lancio dalla Norvegia di un razzo a quattro stadi, il Black Brant, avvenuto la mattina del 25 gennaio 1995 nel quadro di un esperimento scientifico. Il lancio gettò nella confusione il Cremlino, che fu assalito dal dubbio di trovarsi sotto attacco. Il lancio era stato annunciato, ma la relativa documentazione era andata perduta. Quando i radar scorsero il razzo e la notizia risalì la catena di comando fino all’anello finale, fu considerata abbastanza grave da provocare il primo impiego in assoluto della valigetta nucleare da parte dell’allora presidente russo, Boris Eltsin.
Eltsin non era sul punto di dare l’ordine d’attacco; la decisione più drastica che avrebbe potuto prendere era quella di autorizzare un eventuale lancio, qualora l’attacco si fosse dimostrato reale. Non sappiamo granché di quel che fece Eltsin in quei pochi minuti nei quali la valigetta nucleare restò aperta. Venne preso dal panico, o mantenne la freddezza? Comunque, apparve subito chiaro che il razzo era diretto verso il Polo Nord. Non si trattava né di un missile balistico, né era diretto verso Mosca. Ventidue minuti dopo la partenza, si inabissava nell’oceano. Eltsin non fece nulla.
Momenti come questi non hanno alcun bisogno di essere romanzati. Il pericolo nucleare basta e avanza, da solo, per far saltare sulla sedia. Però “Countdown” aggiunge una dose di iperbolicità. Raccontando l’episodio del razzo norvegese, per esempio, al pubblico viene detto che “secondo la dottrina militare russa, quella mattina Boris Eltsin avrebbe dovuto lanciare un attacco nucleare totale sugli Stati Uniti. Non sappiamo quel che accadde al Cremlino. Tutto quel che sappiamo è che l’attacco non ci fu”. Vero, durante la Guerra Fredda, tanto l’Unione Sovietica quanto gli Stati Uniti avevano adottato la procedura nota come “lancio su avvertimento” (launch on warning), che avrebbe potuto far scattare una rappresaglia anche solo sulla base di segnali di un imminente attacco. Ma il razzo norvegese fu lanciato tre anni dopo il collasso dell’Unione Sovietica, e non è così sicuro che Eltsin avrebbe dovuto rispondere con un ordine di attacco agli Stati Uniti. Al di là di altre sue colpe, in quell’occasione Eltsin fece la cosa giusta.
Facendo un film che tenta di suscitare il sostegno per una causa ben precisa – l’eliminazione di tutte le armi nucleari, – i creatori di “Countdown” si sono resi conto di dover stimolare una sensazione di urgenza e di ansia. Non c’è pulsante più sensibile, al giorno d’oggi, della paura del terrorismo. Il film si apre con scene tanto familiari quanto scioccanti degli attacchi terroristici che hanno insanguinato il mondo negli ultimi dieci anni: edifici, vetri e cemento in pezzi da New York a Mumbai. Per quante emozioni possano suscitare, nessuna di queste immagini riguarda un’esplosione atomica. Dopo aver catturato la nostra attenzione, il film sterza immediatamente sull’ipotetico. Si sente una voce dire: “Non ho alcun dubbio che se i terroristi avessero avuto a disposizione un’arma nucleare, non avrebbero esitato ad usarla. Perciò credo che la domanda è: potranno mai averne una?”.
Potranno? La risposta data da “Countdown” è: sì. Il film sostiene che uranio altamente arricchito possa essere introdotto clandestinamente negli Stati Uniti attraverso i porti, nascosto all’interno di un tubo stivato in fondo a un container. Il progetto di una bomba atomica, inoltre, secondo quel che racconta il film non è più un segreto: viene fatto intendere che costruirne una non è più cosa da grandi scienziati. Ma il pubblico, a questo punto, certamente si chiederà: perché mai, se è così semplice, finora ci è stato risparmiato il terrorismo nucleare? E come mai sono passati più di sessant’anni da Hiroshima e Nagasaki, e nessuna arma nucleare è mai stata usata in una guerra? “Countdown” ci lascia appesi a queste domande. Questo documentario sarebbe stato certo più efficace se le avesse affrontate con una certa profondità, magari offrendo perlomeno un’infarinatura sulla dottrina della deterrenza in voga durante la Guerra Fredda. Al contrario, chi ha fatto il film ha fatto suonare tutti gli allarmi, ma non ha spiegato come siamo riusciti a sopravvivere tanto a lungo senza catastrofi.
La parte più convincente di “Countdown” è fissare l’obiettivo su chi ha vissuto in prima persona quel grande dramma che fu il pericolo nucleare. Blair ricorda come nel 1970 fosse stato predisposto un codice di dodici cifre per armare i missili Minuteman, allo scopo di impedire lanci non autorizzati. Ma, rivela Blair, lo Strategic Air Command lo riteneva una complicazione in più, quindi definì il codice come una sequenza di dodici zeri. Matthew Bunn della Harvard University, che ogni anno redige un dettagliato rapporto sulla sicurezza nucleare nel mondo, racconta di russi che si introdussero nel capannone di una base navale nel tentativo di rubare alcune barre di combustibile nucleare, e cita quanto disse il procuratore militare al processo che poi ebbe luogo: “Le patate erano custodite meglio”.
Apprendiamo di due uomini accusati di contrabbando nucleare in Russia e Georgia. Uno di loro, che lavorava in uno stabilimento di produzione di combustibile atomico a Luch, riuscì a portar via un chilo e mezzo di uranio altamente arricchito, prendendone minime quantità ogni volta in modo che nessuno se ne accorgesse. Perché lo fece? Aveva bisogno di soldi per un nuovo frigorifero e una stufa a gas. “Volevo solo comprarmi delle cose essenziali – si giustificò di fronte alla corte che lo giudicava, – poi lavorare onestamente”.
Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan furono i protagonisti di quello che forse è stato l’atto politico più audace di tutti: giungere a un passo dall’accordo per l’eliminazione delle armi atomiche. Accadde al summit di Reykjavik, nell’ottobre dell’‘86. Gorbaciov, nel film, ripensa a quella mancata occasione con tristezza. “A Reykjavik, abbiamo davvero aperto una porta e lanciato uno sguardo oltre l’orizzonte”, dice l’ex presidente dell’Urss.
I realizzatori di questo film sperano di ottenere per il pericolo nucleare ciò che An inconvenient truth (il film-documentario realizzato da Al Gore, ndt) ha fatto per il cambiamento climatico. Bender è produttore di entrambi i film; ambedue sono promossi da Participant Media, la casa cinematografica fondata da Jeff Skoll, noto per voler fare dei propri film altrettanti manifesti di azione politica. In “Countdown”, le immagini e la colonna sonora martellano incessantemente sul pericolo nucleare. Ma il film accenna appena ai possibili rimedi, e lo fa solo alla fine: rimuovere i missili dallo stato d’allerta, stabilire un centro d’emergenza combinato con Mosca, condividere le misure di sicurezza, ridurre gradualmente gli arsenali esistenti. Alla fine, viene lanciato l’appello: “Demand zero” (pretendete zero, sottinteso: armi atomiche – ndt).
Sembra bello, ma è semplicistico. Ci sono ancora 23 mila armi atomiche, il 95 per cento delle quali in possesso di Stati Uniti e Russia. Il film avrebbe dovuto dedicare qualche minuto in più alla questione, complessa e lasciata troppo tempo da parte, di ridurre questi arsenali. Il Senato degli Stati Uniti affronterà presto un aspetto del problema: il nuovo trattato sulle armi strategiche con la Russia. Forse non è materia per intrattenimento: dottrine nucleari, politica, negoziati, verifiche, scienza, diplomazia. Ma coloro che faranno un balzo vedendo “Countdown” si renderebbero conto , si spera, che la risposta ai pericoli nucleari non è semplicemente chiedere che non esista alcuna bomba atomica. Quello è l’obiettivo finale, ma arrivarci è molto difficile. Basta guardare alla paura che ha contraddistinto i primi sessant’anni dell’era atomica. Molte persone hanno vissuto tutta la loro vita in quel pericolo, e quel pericolo è ancora con noi, sugli schermi dei cinema, e ci fa paura.
Tratto da Foreign Policy
Traduzione di Enrico De Simone