
Covid, se i fanatici dell’autodeterminazione ora tifano per il Tso

07 Luglio 2020
“Fare il medico significa anche preoccuparsi per quei due terzi di italiani che non stanno socializzando e sono divisi a metà: ci sono quelli ricchi che stanno a Sankt Moritz, Cortina o a Forte dei Marmi nelle seconde case a fare l’homeworking e poi l’altra metà bloccata in casa a Lorenteggio, o in qualche altro quartiere periferico, impaurito e senza aria condizionata perché qualcuno gli ha detto che se esce muore”.
Lungi da noi fare l’elogio del relativismo, epperò queste parole del professor Alberto Zangrillo, anestesista rianimatore e prorettore del San Raffaele di Milano, ci ricordano che la vita è anche una questione di punti di vista. Prendete il Covid e questo distanziamento che si vorrebbe eterno perché “non si sa mai”: il ditino della buona società epidemiologicamente corretta puntato dagli attici terrazzati allestiti per lo smart working contro i quartieri dormitorio e le periferie accalcate dove il popolino aspira a liberarsi delle mascherine sintetiche monouso riciclate per una settimana si poteva sopportare con la frescura primaverile. Con 40 gradi all’ombra no.
Insomma, dopo gli scontri di classe, dopo l’avvento dell’ideologia radicale di massa, si va materializzando lungo il solco invisibile tracciato dalla pandemia lo spettro di un nuovo conflitto sociale. Tra chi può e chi non può. Tra garantiti e non garantiti. Tra chi vanta risorse economiche e relazioni tali da assicurargli cure e assistenza in un mondo impazzito e chi ha avuto la sventura di ammalarsi di qualcosa di diverso dal Covid senza poter contare su una rete di cura e assistenza personale. Tra chi vive una vita interconnessa (spesso inconsapevolmente alienata) e chi privato di un abbraccio è rimasto solo al mondo. E poi, più semplicemente, fra chi vive la prima condizione e non si accorge di altro, e chi gode di tranquillità economica ma è in grado di percepire l’esistenza dell’altra faccia della luna e fare empatia.
Se si volesse ridurre la questione a una dinamica destra/sinistra, si potrebbe dire che quest’ultima è passata dal quarto stato al terzo sesso alla seconda ondata. E se non si comprende questa faglia che sembra riproporre in chiave sociale l’antica contrapposizione tra apocalittici e integrati, non ci si rende conto nemmeno di cosa ci sia alla base dell’insofferenza di tanti nei confronti della perdurante campagna allarmistica sul virus e di alcune restrizioni delle quali ormai si fatica a comprendere il senso. Insofferenza che solo una sconcertante superficialità può scambiare per incoscienza, menefreghismo o addirittura negazionismo.
Un primo paradosso, soltanto apparente, sta nel fatto che – ribaltando i posizionamenti registrati all’inizio della pandemia, quando l’opposizione invocava rigore e Zingaretti prendeva l’aperitivo sui Navigli – oggi, procedendo per semplificazione estrema, il distanziamento in mascherina è “di sinistra” e la libertà è “di destra” nonostante quest’ultima sia considerata la metà campo del “legge e ordine”.
Il problema, a ben guardare, sta nella qualità della legge e nelle motivazioni dell’ordine. Quando si forniscono dati ambigui e in qualche modo manipolati che cozzano con le evidenze cliniche, è normale che le persone che hanno a cuore l’intangibile valore della libertà qualche dubbio se lo facciano venire. Quando lo Stato ti impone quarantene infinite in presenza di un anticorpo magari sviluppato mesi prima e nella vana attesa di un tampone, c’è poco da stupirsi se due cittadini su tre rifiutano di fare il test sierologico. Quando si stabilisce l’equazione “febbre = Covid” anche in presenza di patologie diverse altamente sintomatiche e dunque riconoscibili, è difficile biasimare chi alla prima linea sopra i 37,5 si imbosca e fa di tutto per sfuggire alle grinfie del sistema sanitario nazionale. E se venendo individuato come potenziale contatto di un positivo rischi l’isolamento anche in caso di tampone negativo, è addirittura surreale ipotizzare che gli italiani corrano in massa a scaricarsi la app “Immuni”.
Al fondo, a segnare lo spartiacque tra le diverse visioni del mondo, c’è sempre l’idea che si ha della libertà. Ciò è apparso chiaro in questi giorni di fronte all’evocazione del TSO (trattamento sanitario obbligatorio) per il coronavirus, a dire il vero tirato fuori dal governatore veneto Luca Zaia e ripreso con malcelato entusiasmo dalle autorità di governo come eventualità nient’affatto esclusa.
Il tema, ovviamente, è risultato fin da subito assai divisivo. E di fronte al definirsi degli schieramenti in campo – ancora una volta dettati dalle diverse concezioni della libertà – una contestazione s’è fatta largo nei vasti meandri della Rete. “Ma come – si è detto –, proprio voi che siete contro l’eutanasia, che siete così autoritari da voler impedire a una persona di scegliere per se stessa senza che la sua decisione di morire abbia conseguenze su altri, ora vi opponete al TSO di fronte a situazioni di possibile contagio?”.
La domanda è intrigante. Innanzi tutto, il discorso può essere agevolmente ribaltato. Iniziando col dire che se questa pandemia nella sua tragicità ha avuto un merito, è stato quello di far sparire come d’incanto i sostenitori della dolce morte, quelli per cui la ventilazione artificiale è una violenza, la vita da intubati non è vera vita, l’esistenza degli anziani vale meno perché non è performante, e simili amenità. In un Paese nel quale si è passati senza quasi accorgersene dalla sacralità della vita alla soppressione dei disabili, litigarsi un posto in terapia intensiva per salvare dal Covid i centenari o i malati di cancro è stato un esercizio per certi versi pedagogico. E continuando col chiedere: proprio voi che avete sempre predicato l’autodeterminazione assoluta adesso vi eccitate per il “trattamento obbligatorio”?
L’obiezione è scontata: l’autodeterminazione riguarda se stessi – risponderebbero gli “eutanasici” -, una malattia infettiva fa rischiare gli altri. Ed è qui che – al netto del dibattito sull’attuale offensività clinica del Covid, vero discrimine di tutta la questione TSO – la contraddizione di fondo del “partito della buona morte” viene alla luce. Il pensare che la scelta di morire, anzi tecnicamente di essere uccisi dall’intervento attivo di una terza persona, riguardi soltanto se stessi. Non coinvolga le relazioni umane nelle quali la nostra vita è inserita. Non calpesti la libertà del medico che a fronte di un diritto esigibile a morire si troverebbe, per la concezione totalitaria che è alla base delle ultime leggi e delle ultime sentenze in materia, costretto a staccare acqua e cibo o addirittura a somministrare sostanze letali.
E’ nei momenti di crisi che i grandi interrogativi riaffiorano e ci costringono a fare i conti in profondità. In questa strana pandemia senza trascendenza si è cercato di esorcizzarli attraverso ritualità collettive tanto superficiali quanto stantie. Ma le domande sull’uomo stanno lì, e spesso – per riallacciarci al punto dal quale il discorso è partito – le risposte più contorte e distanti dal diritto naturale e dal senso comune giungono proprio da quei segmenti sociali nei quali il “male di vivere” si manifesta più per la noia del troppo che per l’ansia di doversi e volersi migliorare, non come parametro economico ma proprio come categoria esistenziale. Parafrasando Flaiano, da quest’altra parte della barricata ideale non siamo comunisti né eutanasici perché non ce lo possiamo permettere.