Croce, Gentile, e lo strano rapporto degli intellettuali italiani col Fascismo

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Croce, Gentile, e lo strano rapporto degli intellettuali italiani col Fascismo

Croce, Gentile, e lo strano rapporto degli intellettuali italiani col Fascismo

30 Maggio 2010

A Mosca, durante la grande parata per il 65° anniversario della vittoria sulla Germania di Hitler, con centinaia di soldati, i veterani carichi di medaglie, le bandiere dell’Urss, militari americani, britannici, francesi, polacchi, sfilate di missili e carri armati, hanno colpito soprattutto le ragazze russe con le magliette con la faccia di Stalin sul petto. Se una ragazza tedesca si avventurasse per il centro di Berlino con Hitler sulla maglietta verrebbe subito arrestata e così accadrebbe se un’italiana si mostrasse nel centro di Roma con Mussolini sulla t-shirt. Stalin è un mostro del totalitarismo, ma la grande maggioranza dei russi lo ama, perché è un vincitore e ha dato alla Russia una dimensione imperiale, ha detto lo storico Nikolai Svanidze a Der Spiegel.

I tedeschi hanno festeggiato il 9 novembre del 2009 la caduta del muro di Berlino, la riunificazione tedesca, una grande vittoria senza una goccia di sangue, a cui sono intervenuti i grandi del mondo. Né russi né tedeschi passano il tempo a litigare sul passato come facciamo noi, in una discussione infinita che non porta mai a una conclusione condivisa. Nonostante le numerose pubblicazioni sul fascismo, la nostra storiografia non ha affrontato, arrivando a un giudizio sintetico, le ragioni del suo successo nel ‘22. Angelo Tasca nel 1950 ci provò, ricordò come il movimento fascista annoverasse tra le proprie file non pochi lavoratori e come i sindacati e la sinistra avessero adottato nel dopoguerra una politica di violenza, che suscitò la reazione di gran parte del paese che cominciò a vedere nel movimento fascista, di cui facevano parte anche liberali, cattolici, socialisti, oltre a monarchici e nazionalisti, la soluzione al caos in cui l’Italia stava precipitando. Tasca fu violentemente stroncato da Gastone Manacorda su “Società”.

Per decenni in Italia è stata ignorata Hannah Arendt, che nelle Origini del totalitarismo collegò la nascita e il successo del fascismo alla crisi della democrazia multipartitica. “È quanto avvenne in Italia col fascismo, che fino al 1938 non fu un vero regime totalitario, bensì – scrisse – una comune dittatura nazionalista, nata dalle difficoltà di una democrazia multipartitica. È ovvio che, dopo decenni di governo multipartitico inefficiente e confuso, la conquista dello Stato a vantaggio di un partito unico possa essere accolta con sollievo, perché assicura, sia pure per un periodo limitato, un certo grado di coerenza, stabilità, di attenuazioni delle contraddizioni”.

Nel ’37 Croce dette un giudizio simile, recensendo sulla Critica il libro di Löwith su Burckhardt: affermò che si era realizzata la previsione di Burckhardt, per il quale la democrazia avrebbe finito per degenerare, soffocando il liberalismo e generando inevitabilmente sistemi autoritari. Dopo avere votato la fiducia al governo Mussolini, dopo il delitto Matteotti, il 24 giugno del 1944, Croce disse in un’intervista: “Non si poteva aspettare e neppure desiderare che il fascismo cadesse a un tratto. Esso non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono”.

Inoltre, poiché Gentile aveva dato le dimissioni da ministro dell’Istruzione dopo la crisi seguita al delitto Matteotti, per consentire a Mussolini in un momento di grave difficoltà di ampliare la sua maggioranza, fu chiesto a Croce – come racconta il filosofo napoletano in Relazioni o non relazioni col Mussolini, scritto nel settembre 1944 – “da parte del Gentile se io avrei accettato il ministero dell’istruzione”. Croce declinò l’offerta e propose come ministro Alessandro Casati, che successe a Gentile, il quale firmò le dimissioni la sera stessa in cui Croce dette il nome di Casati.

Gentile non fu più ministro, ma dopo il 3 gennaio 1925 ebbe un ruolo importante nella revisione degli organi costituzionali, Croce non ebbe reazioni (a parte una querelle sulla stampa con Gentile, che lo aveva definito un fascista senza camicia nera) fino al manifesto di Gentile degli intellettuali fascisti del 21 aprile 1925, a cui reagì col manifesto degli intellettuali antifascisti il 1° maggio.

I due filosofi italiani più conosciuti all’estero, che per molti anni erano stati erano considerati una sola persona, diventarono da quel giorno il filosofo del fascismo e quello dell’antifascismo. Nonostante le punzecchiature dei giornali fascisti e di Mussolini, a cui rispondeva – come racconta in Relazioni o non relazioni col Mussolini – con letterine e articoli pepati sui giornali, Croce, come vedremo, rimase in contatto col fascismo.

Sì, Mussolini aveva detto di non avere mai letto una pagina di Croce e il filosofo napoletano dimostrò in un articolo che il Duce aveva sottoscritto un suo giudizio premesso a una nuova edizione dei Promessi Sposi da lui firmata. Sì, vi fu il fattaccio dell’invasione notturna nell’abitazione del filosofo, misfatto, che come Croce scrisse, gli giovò assai perché tutti i giornali stranieri ne parlarono, esagerandolo. Certo, c’erano uomini che lo sorvegliavano ma, come dice Croce, alla fine diventarono quasi amici. C’erano i sequestri della Critica, ma bastava andare in questura e farla dissequestrare. La sofferenza maggiore fu di essere escluso da tutte le accademie e istituzioni culturali, ma rimase senatore, faceva sentire la sua voce, quando voleva.

Croce rimase però in rapporto col fascismo, perché, come racconta, nel giugno del ’43 Mussolini gli inviò un “ambasciatore” – forse lo stesso Carlo Sforza, appena tornato dagli Stati Uniti e personaggio di spicco dell’antifascismo democratico internazionale, che fece la stessa richiesta anche a Gentile, da anni ormai lontano dalla politica attiva e dedito solo alla cultura – a chiedergli di pronunciare in nome del patriottismo un discorso agli italiani alla radio per esortarli a restare uniti in previsione dell’imminente sbarco degli anglo-americani in Sicilia.

Nel ’44 Croce scrisse di avere declinato l’invito e ironizzò sulla stupidità di chiedergli un discorso patriottico per fermare gli anglo-americani. Gentile invece accettò di fare il Discorso agli italiani il 24 giugno del 1943 e quel discorso gli costò la vita. Gentile poi aderì alla Repubblica Sociale, mentre Croce al Regno del Sud, dove visse il suo momento di euforia.

Il 14 gennaio del 1944 insieme a Carlo Sforza, ministro di Badoglio, a casa sua incontrò Vyshinsky, con cui il Regno del Sud si era messo in contatto per trattare, alle spalle degli anglo-americani, la riapertura delle relazioni diplomatiche con l’Urss, l’offerta di uno spazio in Italia e il ritorno dei comunisti. Quando incontrò Vyshinsky, a cui donò alcuni sui estratti di critica del marxismo, il problema maggiore di Croce erano gli azionisti, a cui aveva aderito perfino il fido Omodeo. Non temeva affatto i comunisti, convinto che, dopo la sua critica, il marxismo fosse morto e sepolto in Italia, colloquiò con Togliatti, ministro del secondo governo Badoglio, che gli sembrava utile per mettere fuori gioco gli azionisti, il suo chiodo fisso, come dimostrano i Taccuini di guerra dal 1943 al 1945.

Le cose non andarono come Croce aveva sognato: gli azionisti e i comunisti, pur nelle differenze, si allearono, e lui si ritrovò ferocemente attaccato dal Pci e fin dal primo numero di Rinascita comparvero le lettere dal carcere di Gramsci, che curato dalla volpe Togliatti avrebbe poi preso il posto di Croce e Gentile nella penisola. Soprattutto, svanì il progetto di Croce di un ritorno all’Italia liberale prefascista e quello, in realtà poco realistico, di sedere come i francesi al tavolo dei vincitori.

Croce, di nuovo solo e con le spalle al muro, reagì con il Discorso contro il Trattato di pace del 24 luglio 1947, nel quale si scagliò contro gli anglo-americani accusandoli di essersi approfittati dell’Italia, di averle sottratto territori conquistati nella prima guerra mondiale, le colonie, di avere cancellato il lavoro di generazioni di italiani e di fare barbari processi per impiccare i vinti. Un discorso drammatico, patriottico, di timbro gentiliano.

Per questo, la lettera di fine luglio 200o di Oriana Fallaci a Chicco Testa, apparentemente sconcertante, non è poi così bizzarra. Dopo aver condannato l’uccisione di Gentile, la Fallaci scrive: “A me non pare che Gentile fosse fascista. O non più di Benedetto Croce che all’inizio leccava il culo a Mussolini, eppure passata la festa la soi-disant sinistra lo ha osannato come un grand’uomo. Un uomo probo. Una mente sublime.[…] Se Gentile meritava di morire, allora anche Benedetto Croce lo meritava. E tanti altri che sarebbero divenuti numi del Pci”. Non sono una fan della Fallaci, giornalista e scrittrice di gran talento, una Hemingway al femminile, ma di cui in genere non condivido i giudizi, pur considerando importanti i problemi che solleva. In questo caso, pur non condividendo altri aspetti della lettera, non trovo assurde le affermazioni citate, proprio perché sono fatte nel 2000.

La Fallaci sembra conoscere bene le vicende della cultura italiana e avere presente, nel 2000, l’evoluzione del giudizio su Croce, attaccato duramente da Togliatti dal primo numero di Rinascita e dal Pci per decenni, per diventare poi negli anni ’90, dopo la fine dell’Urss, il santo del Pci-Pds, soprattutto dopo la vittoria del ’94 di Berlusconi, col pericolo del “ritorno del fascismo”, le parate antifasciste di Scalfaro e l’invito alla nuova resistenza.

Che Gentile fosse fascista non vi sono dubbi. Gentile era fascista, anzi il filosofo del fascismo-nazione, del fascismo come compimento del Risorgimento, liberale-nazionale e conservatore, erede della Destra storica. Ma questo Gentile, quello del Discorso agli italiani del 24 giugno 1943, dove invitava a stare uniti, perché anche nella sconfitta un popolo fiero e unito è rispettato, il Gentile che a Firenze, presidente dell’Accademia d’Italia, esortava alla concordia per evitare la guerra civile o il Gentile lavoratore instancabile fino all’ultimo minuto per costruire una Weltanschauung italiana, alla sinistra non piace.

Quando è uscito il mio libro su Gentile nel 2004, Bruno Gravagnuolo sull’Unità mi ha rimproverato di non avere reso un buon servizio a Gentile appiattendolo sul fascismo e non avere distinto tra il Gentile filosofo e il Gentile fascista. Per la sinistra, Gentile o è il filosofo buono, fascista per caso, oppure è un filosofo e un fascista cattivo dalla testa ai piedi, fazioso, che fascistizza l’Enciclopedia, la scuola, la cultura tutta, meritevole della morte, come sostiene Gabriele Turi, citando Piero Calamandrei, il padre di Franco, protagonista dell’attentato di via Rasella, per il quale Gentile doveva essere giustiziato, perché si era schierato dalla parte degli autori delle Fosse Ardeatine.

La separazione tra il Gentile filosofo, fascista per caso, è andata e va molto di moda a Firenze e la Fallaci è fiorentina. Iniziò nel 1945 in una serie di interventi radiofonici dal titolo Questo fu il fascismo e furono i suoi allievi, passati all’antifascismo e poi approdati al Pci, a sostenerla. Per Calogero, allievo di Gentile, in disaccordo politico, ma allievo e collaboratore di Gentile a cui era legato, come quasi tutti gli altri, da profondo affetto, il fascismo era un fenomeno dannunziano a cui Gentile era rimasto sostanzialmente estraneo. Luigi Russo, che doveva molto a Gentile e gli era successo nella direzione della Normale, confermò che Gentile non aveva niente del dannunzianesimo dei fascisti e col duce ciarlatano che si era appropriato del suo nome. Eppure, rivendicando l’uccisione di Gentile, il filosofo tanto amato da Calogero e da Russo, era stato definito da Togliatti “traditore volgarissimo”, “bandito politico”, “camorrista”, “corruttore di tutta la vita italiana”, “condannato dai patrioti italiani e giustiziato come traditore della patria”.

Se Togliatti voleva cancellare Gentile e Croce, che visse fino al 1952, e innestare Gramsci nella cultura italiana, aveva però bisogno degli ex-crociani e soprattutto degli ex-gentiliani, perché per Gentile il marxismo era una filosofia e non un semplice paio d’occhiali come per Croce, Gentile aveva usato la formula “filosofia della prassi” tanto cara a Gramsci e l’ultimo Gentile aveva scritto Genesi e struttura della società, dove parlava di umanesimo del lavoro e, con molta buona volontà e fantasia, si poteva anche parlare di “comunismo di Gentile”.

E fu proprio Togliatti a recensire entusiasticamente le Cronache di Garin nel 1955, dove il fascismo era presentato come un prodotto di D’Annunzio e di Sorel, letto di seconda mano dal maestrucolo Mussolini, con cui poco aveva a che fare Gentile, liberale austero, filosofo interessato a Marx, riformatore della scuola, pronto a difendere dalla tirannide fascista la Normale e a mettere a posto cattolici come Agostino Gemelli. Dal quel momento la scissione tra Gentile e il fascismo diventò il leit-motiv della sinistra gramsciana, e anche gli studiosi di destra andavano bene alla sinistra, soprattutto dopo il ’94, se si limitavano a sostenere che Gentile aveva difeso la Normale dal fascismo.

Quindi quando la Fallaci, donna di sinistra, ma liberale, dice che Gentile non era fascista o, comunque, non più di Croce, ha presente anche questa interpretazione. Infatti, dà poi un bella unghiata, come ha scritto Veneziani. “Se Gentile meritava di morire, allora anche Benedetto Croce lo meritava. E tanti altri che sarebbero divenuti numi del Pci”. Garin, che fino al 1955, era stato uno stimato professore specializzato nello studio del Rinascimento, dopo la recensione di Togliatti diventò un nume del Pci e nel 1958, insieme a Togliatti e Luporini, tenne la relazione di apertura al primo convegno di studi gramsciani. Garin non ha mai nascosto l’affetto e la stima per Gentile, né di avere collaborato con lui. Fu tra i pochi che lo commemorarono dopo la morte. Pur professando affetto e stima per Gentile, Garin ha sempre negato di essere stato fascista, ha affermato che Gentile sapeva che non era fascista ed è sua la tesi del nicodemismo degli intellettuali, ovvero di fingersi fascisti, pur essendo segretamente antifascisti.

Questa tesi è stata recentemente contestata da Paolo Rossi, per il quale il nicodemismo fu sostanzialmente una bugia: quasi tutti gli intellettuali furono fascisti, nella stragrande maggioranza dei casi si trattò, quando ci si accorse che la guerra era persa, del precipitoso discendere da un treno avviato al disastro per salire in fretta su un altro che andava nella direzione vincente. Occorre riconoscere a Garin una grande capacità di procedere mascherato, perché rimase vicino a Gentile fino alla fine, anche se non era proprio come si dipingeva. Basta sfogliare il testo, stampato da Barbera nel 1931, di una conferenza del prof. Eugenio Garin ( si era laureato nel 1929 con Limentani) al convitto delle Mantellate nella “solenne distribuzione dei premi dell’anno scolastico 1930-1931”.

Garin sostituisce l’avvocato fiorentino Eugenio Coselschi, quello del fascismo universale, ma soprattutto l’amico di D’Annunzio, segretario particolare a Fiume durante la Reggenza italiana del Carnaro. La conferenza è un inno a Dio, Patria e Famiglia, nonché alla “gloria, l’onore, la Patria da far grande anche col proprio sangue”. Nel ’40, Gentile aveva offerto a Garin di collaborare al secondo volume della Storia della filosofia italiana per Vallardi e Garin ringrazia caldamente per l’onore, il carteggio Kristeller-Gentile registra il desiderio di Garin di collaborare con Gentile e non manca un bigliettino, senza data, a Gentile repubblichino nel quale l’autore delle Cronache chiede al filosofo quando sia possibile andarlo a salutare insieme alla moglie, alla Sansoni, o anche al Salviatino, dove Gentile abitava e dove fu ucciso. Di tutti questi ricordi Garin decise di dimenticarsi, dopo la recensione di Togliatti, un uomo e un politico che disse sempre di considerare la salvezza dell’Italia. Insomma, una gran capacità di mettere d’accordo gli affetti e gli intereressi.

Sarebbe troppo facile fare speculazioni: Garin apparteneva a un paese sconfitto, i fascisti venivano epurati, quando non accadeva di peggio, e, come la maggioranza, si adeguò alla nuova realtà, dipingendo a fosche tinte il passato – che era stato anche il suo passato –, tentando di salvare il salvabile, mantenere la propria posizione, anzi di conquistare maggiore prestigio e autorità. Non si può negare che Garin abbia tentato di tenere vivo l’interesse per la cultura italiana attraverso Gramsci, però l’Italia non era né la Polonia occupata dai sovietici, né la Germania est e sarebbe stato meglio per le generazioni del secondo ‘900 dare una visione meno unilaterale del fascismo e dell’antifascismo, con i buoni e immacolati da una parte e dall’altra i brutti, sporchi e cattivi, se c’era tanta confusione e i confini tra fascismo e antifascismo erano tanto labili, almeno finché non ci si accorse che la guerra era perduta e si cominciò a diventare antifascisti e a confidare nell’arrivo degli Alleati, perché la barbarie avesse fine.

Lo stesso Croce, icona della sinistra dal 1994, non fu certo un liberale nel senso che oggi attribuiamo a questa parola. Croce era un realista politico, lo fu sempre. All’inizio del ‘900 era convinto come Burckhardt, Nietzsche o Renan e Fustel de Coulanges di vivere l’autunno dell’Europa. Era uno dei pochi, insieme a Weber e Sorel, ad ammirare i “barbari” americani e aborriva la democrazia “alla francese”, come detestava la Francia figlia della rivoluzione, similmente a Pareto, che nel 1916 aveva paragonato la Francia ad Atene, intellettuale e raffinata, ma fallita e conquistata da Roma. Con la Critica compie con Gentile una rivoluzione culturale nel giro di pochi anni, ridicolizza i filosofi accademici e conquista gli studenti, alleandosi con i ragazzi della Voce e del Leonardo, che si facevano sentire e discutevano di tutto, da Bergson, a Sorel, a Freud, alla necessità della guerra e pubblicavano il giovane socialista rivoluzionario Mussolini.

Il politico della coppia fino al ’14 è Croce. Dopo Marx, combatte la “mentalità massonica”, in cui includeva illuminismo, positivismo, socialismo turatiano e democrazia. Nel 1911 paragonò i partiti politici ai generi letterari e, quando Salvemini fondò l’Unità, gli chiese ironicamente se era davvero necessaria la democrazia. Era preoccupato perché tutte le categorie sociali erano in lotta con lo Stato per riceverne vantaggi, non solo i metallurgici, i ferrovieri, e i tranvieri, ma anche i magistrati, i professori universitari, gli ufficiali di marina e perfino i pensionati e gli studenti delle scuole secondarie. Era preoccupato dell’atomismo sociale e deprecava che parole come patria e nazione fossero diventate fredde e retoriche. Insomma, era il Croce prefascista e infatti nella Storia d’Italia del ’28 presentò Mussolini come un proprio prodotto.

L’amicizia con Gentile è tanto importante da combattere come un leone per fargli conquistare la cattedra nel 1906 a Palermo, dove Gentile elabora il nucleo della sua filosofia e inizia la battaglia per la riforma della scuola. È un’amicizia assoluta, un confronto trasparente su tutto, Croce fa di tutto per riuscire a far trasferire Gentile a Napoli. Gentile, che vive bene anche lontano da Croce, riesce a imporsi nel mondo accademico e ad avere anche la prestigiosa cattedra di filosofia teoretica a Pisa nel 1914: ha una scuola e una propria filosofia. Come Croce dirà nel ’23 a Gentile, lamentandosi della sua rivista, Il Giornale critico della Filosofia italiana, e dei suoi allievi, loro due avevano sempre saputo di avere idee diverse su tutto, ma insieme, loro due da soli, avevano fatto la Critica e cambiato la cultura italiana. Sono gli allievi di Gentile a preoccupare Croce, allievi che spesso lo punzecchiano e per questo nel 1913 renderà pubbliche le divergenze filosofiche con Gentile.

Il vero contrasto tra i due si ha soltanto nel ’14 sulla guerra. Gentile, che allora debutta in politica e diventa il filosofo più amato tra i giovani studenti e gli intellettuali, è a favore della guerra, perché la ritiene una prova necessaria per non vivere sul passato, come la Spagna e la Grecia, e avere un ruolo in Europa. Croce è contrario alla guerra. È convinto che l’Italia sia troppo fragile per sopportare una guerra e ne uscirà stravolta. Teme che la guerra possa essere l’occasione per una rivoluzione socialista e la rivoluzione bolscevica del ’17 confermerà la previsione. Inoltre, è filotedesco, detesta l’idea di scendere in guerra contro la Germania, che per lui è l’Europa, a fianco dell’Intesa, si oppone alla propaganda sulla barbarie tedesca, loda la Realtpolitik tedesca, invita a non illudersi di vincere i tedeschi, e viene tacciato di disfattismo. Ebbe scontri con De Ruggiero che contrappose l’élan vital al “tedesco meccanico”, tensioni con Gentile e con i vociani, ormai tutti gentiliani, interventisti e innamorati del Popolo d’Italia di Mussolini.

L’idea di un’alleanza con Francia e Inghilterra è un incubo per Croce, che teme, come Sorel, che lo informa quotidianamente delle pressioni di Bergson su Wilson per chiedere l’intervento statunitense, l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. “Io ho il sentimento – scrive a Gentile – dell’ignoto e pauroso legame che si vuole stringere con un mostruoso accozzo di civiltà e interessi disparati, quale è l’Intesa”. Mentre Gentile si mantiene calmo anche di fronte a Caporetto, Croce rimane inquieto e depresso per tutta la guerra. Le lettere con Gentile sono poche, continue con quelle con Sorel e dalle risposte del francese ( quelle di Croce sono andate perse) si intuiscono gli incubi di Croce. Straziato dall’idea di una sconfitta italiana, è lacerato anche dall’idea della sconfitta tedesca. Sorel ha uscite antisemite su Bergson, di cui Croce rifiuterà sempre di far tradurre libri da Laterza, Gli americani non sono più i barbari vitali del 1907, ma, come gli scrive Sorel, un pericolo per l’Europa destabilizzata dalla rivoluzione russa e dalla fine degli Imperi centrali.

Felice per la vittoria italiana, Croce fa di tutto per riallacciare le relazioni con la Germania, fa pubblicare da Laterza un libro di un giovane tedesco caduto al fronte, descrive all’amico Vossler l’insicurezza di non avere più al centro dell’Europa una nazione forte, disciplinata e laboriosa come la Germania. Scrive articoli di fuoco contro Wilson e la Società delle Nazioni. È preoccupato per la crisi del dopoguerra italiano, per gli scioperi, il caos. Va ad applaudire Mussolini al San Carlo e appoggia la riforma di Gentile ministro dell’istruzione, che compie l’opera iniziata da lui come ministro di Giolitti. Esteticamente a Croce, nipote di un alto magistrato borbonico e senatore del Regno per censo, il fascismo non poteva piacere: troppe camice nere, troppe scenografie, e troppo popolo. Però sostiene Mussolini e il fascismo, come abbiamo detto, in un momento difficile come quello del delitto Matteotti. Croce più che del discorso di Mussolini del 3 gennaio si lamenta che Gentile, “ignorantissimo in materia di diritto”, fosse stato messo a capo di una commissione per cambiare lo Stato liberale.

Di solito, la Storia d’Italia è considerata un classico dell’antifascismo, anche se in essa Croce non attacca Mussolini, ma Gentile. Di Mussolini, che nel 1903, su Il Popolo aveva salutato il debutto della Critica, ricordando che Croce era amico di Sorel, non il solito accademico della vecchia filosofia pulzellona, Croce dice un gran bene nella Storia d’Italia. Un giovane intelligente, colto e coraggioso, che aveva infuso una nuova anima al socialismo con Sorel, Bergson, il pragmatismo, Blondel, che nel ’12 fu chiamato a dirigere l’Avanti! e al congresso di Ancona del ’14 chiese di votare l’inconciliabilità tra socialismo e massoneria e aprì l’Avanti! all’idealismo.

Croce è anche pieno di lodi per il Mussolini interventista, sorvolando sul fatto che lui era stato contrario alla guerra. Mentre i socialisti italiani si ostinavano a negare la guerra – dice con enfasi quasi gentiliana –, i socialisti tedeschi sostenevano l’interesse nazionale della Germania: solo il socialista rivoluzionario Mussolini, che possedeva fiuto politico e risolutezza lasciò l’Avanti! e fondò il Popolo d’Italia, dimostrando di avere a cuore l’interesse nazionale. Mentre loda Mussolini, attacca Gentile, che aveva ceduto alle lusinghe dell’irrazionalismo e aveva dato vita all’attualismo, che definiva “un non limpido consigliere pratico”. Mentre attacca Gentile, dandogli dell’irrazionalista, Croce dipinge se stesso nel primo quarto di secolo come un cauto liberale della Destra storica, ostile all’idea della politica come potenza. Croce rovescia completamente le carte, perché era stato il teorico della Realtpolitik e della politica dello Stato come potenza e aveva diffuso Sorel per scompigliare la sinistra.

Quando Gentile rompe con Laterza per il “non limpido consigliere pratico”, Croce scrive a Laterza di non preoccuparsi, perché “per anni avete goduto di una donna giovane e fresca e ora vecchia e brutta la consegnate a un altro amante”. “L’altro amante” di questa paradossale metafora è Mussolini, per il quale Croce si sente lasciato da Gentile. Da quando Gentile era diventato ministro di Mussolini, un uomo nuovo, giovane e intenso come lui, il rapporto con Croce passò inevitabilmente in secondo piano, preso dai problemi del ministero e della riforma della scuola. Le lettere e gli incontri si diradarono, le risposte alle richieste di Croce, così suscettibile e abituato a essere trattato da primadonna, provocarono frustrazione, sfiducia, sospetti.

Croce si offese perfino perché Gentile non gli chiese il permesso di iscriversi al fascismo. Insomma, il giovane normalista che aveva sostituito Labriola nell’amicizia intellettuale e nell’affetto, era troppo autonomo, si era emancipato, aveva trovato la sua strada e perfino il suo Duce. Croce si sentì tradito. Come confessò a Omodeo in una lettera del 1930, lui aveva fatto di tutto per far entrare Gentile all’università, ma poi lui appena si era sentito forte aveva fondato una sua scuola. E avrebbe potuto aggiungere, si è staccato da me, è sceso in politica, è diventato ministro, sta facendo la storia. Già, fare la storia, l’ambizione che ogni filosofo da Platone nutre segretamente dentro di sé e a cui Hegel aveva dato consistenza logica. Questo groviglio di sentimenti e risentimenti nel nipote degli Spaventa, che aveva aiutato il figlio del farmacista di Castelvetrano a entrare nel mondo, avere successo, e lo aveva visto allontanarsi, ebbe qualche conseguenza nei confronti del fascismo.

Quando Gentile scrisse il manifesto degli intellettuali fascisti, Croce scrisse quello degli intellettuali antifascisti. In Relazioni o non relazioni col Mussolini sottolineò compiaciuto che il suo manifesto fu sempre ricordato e mai quello di Gentile “al quale rispondeva e che, in verità, per logica e per forma letteraria, troppo era inferiore alla logica e alla prosa di noi antifascisti”. Il manifesto degli intellettuali antifascisti – come Croce stesso dichiara – lo scrisse lui stesso in poche ore, dopo che Giovanni Amendola gli aveva chiesto per lettera se avrebbe firmato una risposta al manifesto di Gentile. Dell’atto che ufficialmente segnava la pubblica presa di posizione antifascista di Croce, il filosofo napoletano nel ’44 ricordava soltanto con soddisfazione di avere scritto un manifesto migliore di quello di Gentile.

Il logoramento del rapporto con Gentile ebbe dei riflessi nella relazione di Croce col fascismo e nel Discorso contro il Trattato di pace, che è nei fatti un’autocritica feroce a se stesso e non pare neppure scritto dallo stesso Croce che nel ’44 confessava compiaciuto quanto fossero stupidi a pensare che potesse rivolgere un discorso patriottico agli italiani per fermare gli Alleati, si avverte uno smarrimento doloroso, quando confessa di essere atterrito al pensiero di cosa penseranno le future generazione per “aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune madre a ricevere un iniquo castigo”.

Col Discorso contro il Trattato di pace Croce, per la prima volta, fece i conti con se stesso e fu il momento più amaro. Sperimentava l’amarezza della sconfitta personale e il dolore profondo della perdita di un’idea dell’Italia che gli era stata molto cara. Quell’Italia si era davvero spezzata ed è ancora oggi confusa e priva di identità. Più del federalismo è questo che dovrebbe preoccupare e nessuna retorica sui 150 anni di unità d’Italia fa effetto quando la cultura di un paese ha smarrito da troppo tempo il senso di cosa significa essere un popolo e avere in comune la stessa terra. L’Oriana furiosa lo aveva capito e con la solita schiettezza aveva centrato il cuore del problema.