Cronaca di un giudizio annunciato

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Cronaca di un giudizio annunciato

16 Febbraio 2011

Emesso il decreto di giudizio immediato ed è subito sentenza. Questo, almeno, stando alle conclusioni, immediate pure queste, che sono comparse sui siti dei maggiori quotidiani nazionali a pochi minuti dalla diffusione della notizia del provvedimento del gip di Milano.

Dalla Nemesi invocata da Famiglia cristiana che, forte delle proprie capacità divinatorie, ha stabilito che “le stesse donne faranno giustizia”, intendendo chiaramente per giustizia la punizione esemplare, quella che si “fa”, appunto. A tutti i commenti univoci sul fatto che ‘prova evidente’ significa prova certa e colpevolezza sancita.

Per finire con i calcoli sulla durata del giudizio di primo grado diretti, più che ad altro, a prevedere la data in cui sarà ordinata l’interdizione dai pubblici uffici che rimuoverà immediatamente (ancora…), per sempre e per legge il Colpevole dallo scranno che occupa indegnamente, come sancito nel processo del popolo celebratosi nelle piazze del Paese giusto un paio di giorni prima.

La cosa che desta più allarme, quantomeno in chi, magari per dovere professionale, deve ancora coltivare l’illusione di vivere in uno Stato di diritto, è la carneficina delle regole del processo e degli istituti del diritto penale che si compie quotidianamente sui mezzi di informazione e nelle discussioni tra comuni cittadini debitamente ‘informati’. 

È la diffusione di una cultura sostanzialista della giustizia che sacrifica senza alcun dispiacere i fondamenti faticosamente conquistati del giusto processo sull’altare dell’affermazione di una Verità precostituita. Del resto, da quando è diventata strumento e tema centrale dell’azione politica, la giustizia e i suoi istituti sono entrati per conseguenza naturale nella disponibilità argomentativa di tutti i consociati, nel patrimonio comune di discussione. 

Se un tempo, al caffè, per strada, sui sagrati delle chiese, nelle scuole e nelle sedi dei partiti, si discuteva dei diversi modelli di società, di idee, di ideologie, oggi negli stessi luoghi si discetta di competenza funzionale o per territorio, di rito immediato, di pene accessorie, di conflitti tra poteri dello Stato e così via, toccando con lievità assertiva temi e materie di delicata e complessa trattazione per i giuristi e gli operatori del diritto. 

Ma il diritto ha una sua forza interna e, ogni tanto, se lo si sta ad ascoltare, dice la sua. E allora, cominciamo con il metterci tutti tranquilli, facendocene una ragione, riguardo al fatto che la conclusione del giudizio di primo grado, quella che si dà per scontata anche senza le divinazioni del quotidiano dei Paolini, porti con sè l’immediata rimozione del condannato dalla presidenza del Consiglio in forza dell’interdizione dai pubblici uffici che consegue alla condanna per concussione.

La nostra legge processuale prevede che l’impugnazione di una sentenza di condanna sospende l’esecutività della pena principale e di quelle accessorie: la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, quindi, non può avere l’efficacia agognata fino alla sentenza definitiva. E, di conseguenza, salve diverse decisioni dell’imputato, bisognerà aspettare l’esaurimento dei tre gradi di giudizio che, ancora, sono previsti dal nostro prodigo ordinamento.

Poi, preso atto di questa ineluttabilità, passiamo alla successiva: la prova evidente che l’art. 453 del codice di procedura penale contempla tra i presupposti necessari per procedere con il rito immediato, non è prova certa di responsabilità. Con questa espressione il legislatore che ha ideato l’istituto del giudizio immediato ha inteso indicare una consistenza dell’ipotesi d’accusa tale da poter essere sostenuta a dibattimento senza passare attraverso il giudizio-filtro dell’udienza preliminare.

L’istituto, molto discusso nella dottrina e nell’avvocatura penalistica per l’abbattimento dell’intervento della difesa nella fase precedente il giudizio, è stato pensato per dare soluzioni rapide a fatti di tale linearità da comportare attività di indagine per un tempo molto limitato, non superiore ai 90 giorni quando si tratta di indagati liberi. 

Fatti lineari, indagini snelle, prova d’accusa non controversa ma controvertibile, come la definiscono i commentari del codice di procedura penale. Un’istruttoria sommaria, insomma, che evoca quella del processo inquisitorio del codice Rocco, un tributo alla speditezza del processo e all’efficienza del sistema giustizia reso in cambio dei risultati di sicurezza sociale cui questa forma di procedimento è stato destinato originariamente (e di più, con l’ultimo pacchetto sicurezza).

Ora, molto ci sarebbe da dire sul fatto che un procedimento del genere si attagli alle vicende che vengono contestate al presidente del Consiglio e che hanno comportato un lavoro di indagine decisamente complesso, ampio ed esteso nel tempo ben oltre i 90 giorni (nemmeno del tutto decorsi) dalla formale iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato. Obiezioni superate dalle valutazioni compiute dal gip di Milano: l’ipotesi d’accusa è idonea a reggere al vaglio del dibattimento e, quindi, processo sia. Ma processo, appunto, non ratifica dei capi di imputazione.

E allora passiamo all’ultima, per molti sconfortante, considerazione che il giudizio immediato si svolge con le stesse modalità e regole del dibattimento nel giudizio ordinario. Quello che, per dettato costituzionale, si compie nel contraddittorio delle parti e con la formazione della prova davanti al giudice, terzo e imparziale. Che, quindi, richiede tempo, in primo luogo.

Il tempo, oltre al resto, della verifica delle tesi d’accusa attraverso l’esercizio di tutti gli strumenti di difesa, compresi quelli di natura procedurale. Quelli che alcuni autorevoli commentatori definiscono ‘tecniche dilatorie’ e che per altri, irriducibili difensori del processo giusto e di uno Stato di diritto liberale, sono l’indefettibile elemento del contraddittorio che, solo, conduce al raggiungimento della verità processuale.

Infine, dobbiamo fare un atto di coraggiosa resa al principio di terzietà e imparzialità del giudice, perchè, di nuovo, è il diritto, di rango costituzionale, che lo impone. Il che vuol dire tutelare la serenità del giudizio, mettere chi giudica nelle condizioni di poter essere terzo (pure a dispetto di un ordinamento che ancora non ha realizzato il precetto sancito dalla Costituzione) e sopra le parti. Ed allora, per esempio, la previsione della giustizia che sarà “fatta” da quelle tre donne esprime un’aspettativa che fa a pugni con il rispetto verso la laica sacralità dell’imparzialità del giudice.

Per non dire che a due giorni dall’epocale manifestazione, italiana ma di portata mondiale, sulla dignità delle donne, il rispetto verso le tre magistrate che compongono il collegio giudicante del ‘processo del 6 aprile’ avrebbe voluto quantomeno che si evitasse la sottolineatura della loro specificità di genere, tutta tesa ad attribuire una potestà vendicativa degna della migliore mitologia ma che nulla ha a che fare con i valori del compito che svolgono e del ruolo istituzionale che rivestono.

In un sistema ideale, quello che Piero Calamandrei tratteggiava nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato, il giudice è una figura che tutela nel silenzio e nella solitudine, nell’apparenza oltre che nella sostanza, il proprio destino di persona votata all’imparzialità. 

I tempi sono cambiati e non si può pensare che i magistrati vivano in una sorta di splendido isolamento dal resto della collettività per preservare la propria sostanza e apparenza di esseri al di sopra delle parti. Ma che la collettività si faccia tanto più carico di rispettare questa condizione di salvezza dell’ordinamento democratico, smettendo di attendere dalla Giustizia le soluzioni politiche che la politica non sa trovare, questo sì, si può pretendere.

Altrimenti la fine è nota: ma non soltanto quella del processo a Berlusconi.

(tratto da The Front Page)