Cruz dice no a Trump, Mike Pence prova a unire i Repubblicani

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Cruz dice no a Trump, Mike Pence prova a unire i Repubblicani

21 Luglio 2016

Nella storia delle presidenziali americane l’Ohio ha sempre avuto un ruolo cruciale. Addirittura, per qualcuno, non si arriva alla Casa Bianca senza passare per questo stato. E proprio da quelle parti l’aria, per Trump, è difficile. Il Don ha rotto gli equilibri storici del partito repubblicano e le cose di sono complicate quando ha intrapreso una lotta senza esclusioni di colpi con lo stesso governatore dell’Ohio, John Kasich, amato dal GOP e rispettato dai democratici. La scelta di quest’ultimo di disertare la convention repubblicana, sbarcata a Cleveland, ha infranto i sogni di chi sperava in una riconciliazione.

Nella terza giornata di lavori alla Convention ci si aspettava di mettere un punto definitivo ad un periodo, che in parte è stato anche drammatico, di divisione interne al GOP. Non è andata completamente così. Mentre fuori dalla convention la parte più facinorosa di un Paese che non accetta la candidatura Trump continuava a protestare – nel corso della manifestazione due poliziotti di Cleveland sono stati feriti e almeno diciassette le persone arrestate – dentro la Quicken Loans Arena ad agitare le acque è stato il discorso di Ted Cruz. L’aver accettato l’invito a salire su quel palco per tutti voleva dire ‘endorsement‘, e invece Cruz si è limitato ad invitare al voto “secondo coscienza”: “Non rimanete a casa a novembre. Se amate il vostro Paese e i vostri figli come me, alzatevi e parlate. Votate secondo coscienza per un candidato di cui vi fidate affinché difenda la nostra libertà e sia fedele alla Costituzione”. La platea è insorta e, mentre Trump si mostrava impassibile, Cruz usciva di scena incapace di gestire la platea in subbuglio.

Così ogni attesa è stata riposta nel discorso di presentazione del candidato vice, Mike Pence. Il governatore dell’Indiana, scelto dal tycoon per il ticket nella corsa alla Casa Bianca, ha provato a riportare la convention sui binari giusti. Pence ha accettato ufficialmente la candidatura e con un’oratoria senza sbavature si è presentato alla platea repubblicana: “Sono cristiano, conservatore e repubblicano, in quest’ordine”. Aggiungendo: “per chi non mi conosce, ed è la gran parte, ho iniziato nell’altro partito”, ma sono stato folgorato nella “rivoluzione di Reagan“.

Quando Trump su Twitter ha comunicato al mondo intero di averlo scelto come vice, i media non hanno esitato a sbizzarrirsi. Per tutti, e per certi versi, Pence è esattamente l’anti Donald. Così misurato nei toni e nello stile. Pervaso di principi solidi e aperto al dialogo, per niente adepto dell’arte di insultare, al governatore dell’Indiana è stato affidato lo stendardo del conservatore tutto d’un pezzo. La posatezza e la ragionevolezza di Pence pare gradita a quella parte dell’establishment che con tanta difficoltà si è dovuta adeguare a Trump. Per Rubio è stata una “grande scelta”, per Paul Ryan “non ci potrebbe essere persona migliore” per equilibrare l’eccessiva passionalità del Don.

Pence è strenuo oppositore dei matrimoni omosessuali e delle unioni civili, e vorrebbe “vedere la Roe v. Wade nel cestino della storia”. Fervente cristiano, avvocato, da sempre sostenitore del Tea Party, si è a lungo definito un “Jack Kemp republican”.  Chiede limiti rigorosi alla spesa pubblica, si oppone alla chiusura del campo di detenzione speciale di Guantanamo, è favorevole all’intensificazione dei controlli alle frontiere al fine di contenere l’immigrazione.  L’anno scorso è balzato agli onori della cronaca per aver firmato una discussa legge sulla libertà religiosa in Indiana. Ieri sera si è fatto conoscere meglio anche dai media stranieri.

Chiudendo la terza giornata di convention sullo sfondo azzurro del palco, Pence ha elencato i temi dell’agenda Trump: protezione degli Stati Uniti dagli immigrati e dal terrorismo, una politica estera più forte e ritorno del lavoro negli Usa. Forse si tratta dell’uomo giusto capace di tenere in caldo i temi cari all’elettorato cristiano ed evangelico un po’ trascurati da Trump. Forse è l’uomo che può recuperare il recuperabile. Gli analisti, i commentatori, gli stessi membri del partito e quella parte di America che vede nella eventuale vittoria della Clinton una tragedia, ripongono non poche speranze in un fenomeno simile a quello che la storia ha battezzato “Reagan Democrat“.

All’epoca si trattava di quei democratici della working class che si misero sotto l’ala di Reagan in cerca di tutele e protezioni che il loro partito non è mai stato capace di offrire. Ma soprattutto a votare Reagan li spinse un programma tutto volto alla difesa di quell’ America tradizionale, la ‘Right Nation’,  che nella lotta all’aborto o alla pornografia, per esempio, trova le ragioni di una scelta piuttosto che di un’altra. Reagan fece anche una campagna volta alla diminuzione della pressione fiscale e al tentativo di garantire la sicurezza nazionale attraverso una più severa repressione del crimine. E fin qui i punti di contatto con il nuovo candidato ci sono. Così lo stesso potrebbe succedere a Trump che, nel sostituire così la fetta dell’establishment repubblicano che continua a disertare, e a fare resistenza, potrebbe salvare il mondo da una presidenza Clinton bis.