Culto della morte e povertà: Hamas sta mangiando i suoi stessi figli

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Culto della morte e povertà: Hamas sta mangiando i suoi stessi figli

22 Maggio 2010

Rafah, Striscia di Gaza. "Avevano promesso riforme e cambiamenti e invece hanno distrutto le nostre case", grida Miasar Gan, una donna palestinese di cinquantaquattro anni a un giornalista dell’Associated Press. Gan, suo marito, e i suoi due figli sono stati sfrattati con la forza e la loro casa demolita. Ma questa volta, non c’entra lo stato d’Israele, bensì, il governo “democraticamente” eletto di Hamas.

Domenica scorsa sono state demolite dalle trenta alle quaranta case perché “costruite abusivamente”, o perlomeno questa è la motivazione che è stata data ai cittadini di Rafah. “Sono arrivati con i bulldozer e hanno buttato giù tutto. Ora, non ho un altro posto dove andare, ho solo il materasso che ho ritrovato tra le macerie e nemmeno i soldi per ricostruirci un nuovo alloggio”, continua Gan mentre un suo (ex) vicino di casa, Nazira Abu Jara, incalza: “Le poliziotte di Hamas hanno  picchiato duramente Gan con dei bastoni perché a loro dire non rispettava i dettami islamici nell’abbigliamento”. La maggior parte delle case abusive era stata tirata su, in maniera improvvisata e irregolare, dopo la guerra del 2009 ma questo al sindaco di Rafah, Issa al-Nashar, non interessa e risponde che il governo di Gaza continuerà ad eseguire demolizioni contro "quanti costruiscono proprietà private su suolo demaniale".

Intanto, nel resto della Striscia di Hamas le cose non vanno tanto meglio. Due settimane fa Arab Bank, tra le più grandi banche del mondo arabo, con tre filiali a Gaza, ha annunciato la chiusura di ogni operazione finanziaria nel territorio di Gaza. Il gruppo Arab Bank era l’unico istituto di credito operante a livello locale che rispettava gli standard internazionali e per questo era l’unico canale usato per il trasferimento di fondi dall’estero all’interno della Striscia, e quindi, l’unico canale usato dalle agenzie umanitarie per il trasferimento di soldi. Ma, a seguito di alcuni rapporti dell’Fondo Moentario Internazionale (FMI) che accusano le ONG di girare il denaro, destinato alla popolazione per programmi di emergenza e di sussistenza,direttamente nelle mani di Hamas, il gruppo bancario ha deciso di chiudere i battenti. I rapporti tra Arab Bank e Hamas, comunque, non erano idilliaci. Il Gruppo terroristico palestinese pretendeva il pagamento di tutto il denaro raccolto con la tassazione sui movimenti bancari, fondi che normalmente vengono trasferiti alla Autorità Nazionale Palestinese (ANP) presso la sede della stessa banca di Ramallah. E la scorsa settimana uomini armati di Hamas sono entrati nella figliale di Gaza della Arab Bank pretendendo la consegna di quattrocentomila dollari.

La notizia è stata diffusa dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth e in Italia lo ha riportato la ONG Secondo Protocollo che, inoltre, ha presentato un corposo e dettagliato rapporto destinato alle Nazioni Unite, all’Unione Europea e a diversi Paesi donatori, dove denuncia la  connessione tra Hamas e diverse ONG deputate alla distribuzione degli aiuti umanitari, aiuti che non vengono affatto distribuiti alla popolazione come dovrebbero, ma finiscono per la quasi totalità nelle mani dell’organizzazione terroristica che li commercializza facendoli pagare anche a caro prezzo.

Leggendo un estratto del rapporto scopriamo che nel corso del 2009 sono entrati nella Striscia di Gaza cinquemilatrecento camion di aiuti umanitari contro i seicentosei del 2008 con una crescita del novecento per cento (fonti ONU). A dispetto dell’incredibile aumento nell’ingresso degli aiuti, la situazione umanitaria e sanitaria resta drammatica: ogni cosa è direttamente o indirettamente sotto controllo di Hamas e questo provoca un forte rallentamento nelle distribuzioni che non vengono fatte, come sempre avviene, dalle ONG, ma direttamente dai militanti islamisti palestinesi. I fondi che arrivano dalla comunità internazionale (e dalla cupola iraniana) Hamas li investe in armi e propaganda – antisemita, naturalmente. La ONG israeliana Palestinian Media Watch (PMW) è dal 1996 che avverte la comunità internazionale di controllare come si usano i soldi dati ai partiti e alle istituzioni palestinesi, riferendosi sia ad Hamas che ad Al Fatah: “Al contrario di quanto si pensa in Occidente, non esiste una parte più moderata, non c’è un Fatah migliore di Hamas: entrambe incensano violenza, martiri e martirio”, afferma il presidente della ONG, Itamar Marcus. Il PMW monitora e analizza testi scolastici, programmi tv, documentari, cartoon, giornali palestinesi e il resoconto è chiaro: in Palestina intere generazioni sono educate all’odio e alla violenza contro l’ebreo, singolo e collettivo, cioè, Israele.

Dal lavoro dell’osservatorio israeliano scopriamo che in città importanti, Betlemme e Ramallah ad esempio, ad assassini come Abu Jihad (omen nomen) o Dalal Mughrabi (ha ucciso 37 passeggeri di un bus nel 1978, tra cui dieci bambini ) vengono dedicate piazze, scuole, campi estivi, tornei di calcio, nomi di squadre di cacio, trofei, sale computer e il tutto, pagato dal Ministero della gioventù o da altre istituzioni palestinesi. E ancora, il moderato Fatah produce programmi televisivi dove massime autorità religiose palestinesi, come Tayseer Tamim, predicano che “Israele diffonde AIDS e droga nei territori per uccidere e intontire i giovani palestinesi”, e non basta cambiar canale per sentire messaggi diversi. Altrove, si vedono cartoon dove “quei sanguinari degli ebrei” distruggono con l’acido la moschea di Al Aqsa. Puppet show, su Hamas TV questa volta, in cui gli eroi dei bambini vengono uccisi dai soldati israeliani, programmi, sempre per bambini, dove gli stessi ragazzi (anche di dieci anni) sognano di diventare martiri e si vedono video musicali in cui madri augurano shahada ai propri figli, cioè il martirio. “Quando si parla di paradiso viene da ridere”, dice Marcus ma è uno specchio per molte allodole: “Il 68.6% dei palestinesi è favorevole alla legge coranica (Shari’a) e crede nella shahada”.

Nonostante la cultualità della morte, dell’odio, della violenza e dell’infamia (su semplici cruciverba si indica lo Yad Vashem  come “un luogo di bugie”), Khaled Mashal, il leader di Hamas a Damasco, incontrando il presidente russo Dmytri Medvedev e parlando del caso del soldato Shalit, ha avuto la faccia tosta di dire che Shalit non sarà liberato senza prima aver stretto un “accordo onorevole” . Difficile capire cosa significhi per Hamas la parola “onorevole”. Pochi giorni dopo questa dichiarazione sul quotidiano di Hamas Falasteen appariva un’intervista, falsa, al soldato prigioniero da quattro anni e di cui nessuno, nemmeno la Croce Rossa, sa più nulla. L’editoriale firmato dall’analista politico Mustafa al-Sawwaf è stato tradotto e riportato dal giornale israeliano Yedioth Ahronoth. In breve: al-Sawwaf sogna di intervistare Shalit e il caporale dichiara di trovarsi bene, di stare in buona salute e di essere sorpreso di come in realtà siano buoni i palestinesi (“non sono come li descrivono a scuola e nell’esercito”) . Questa “onorevole intervista” è stata editata dopo il cartoon dove si mostra il graduale invecchiamento del padre di Shalit che riceve solo una bara del figlio e mentre i genitori del caporale cercano da quattro anni notizie sul ragazzo.

Se per “onore”, Hamas, o il separato in casa Fatah, intendono questo, sarà meglio che in vista dei proximity talks si vada armati, di vocabolario.