Da Atene a Madrid, la crisi porta la Cina sempre più nel cuore dell’Europa
11 Gennaio 2011
La Cina continua a fare shopping in Europa. Questa volta tocca alla Spagna. E’ stato il vice premier Li Keqiang ad annunciare che il suo Paese è disponibile ad acquistare circa sei miliardi di euro di debito pubblico spagnolo (ma anche di quello del malandato Portogallo).
Keqiang è il più probabile successore dell’attuale premier Wen Jiabao. Potrebbe essere quindi lui, guidare le finanze di Pechino, che sta da tempo diversificando il suo portafoglio di titoli di stato, affiancando quelli europei ai Treasury bond statunitensi, di cui è già il maggior detentore. I forzieri della Banca centrale di Pechino sono stracolmi di monete straniere e questo permette di pilotare al rialzo il valore dei titoli di stato dei Paesi europei che oggi sono in crisi ottenendo sostanziosi guadagni.
Con il loro intervento i cinesi vogliono evitare che Madrid sia la prossima ad essere inserita nella black list dei rischio default dopo Grecia ed Irlanda perché nonostante le sue floride finanze, in caso di crisi del debito sovrano, la Cina è esposta a perdite consistenti sulle riserve investite in valute altrui.
Nella Penisola iberica Pechino vuole adottare la stessa strategia utilizzata all’ombra del Partenone. Lo scorso ottobre, in una Grecia prostrata dalla crisi e sconvolta dalle proteste di piazza contro il piano di austerity, Wen Jiabao aveva dato assicurazioni che Pechino avrebbe comprato bond governativi ellenici. Una bella boccata d’ossigeno ed un segnale forte ai mercato dato che Atene ha titoli pubblici in scadenza da rifinanziare pari a 28 miliardi di euro, ma il Tesoro non può andare sul mercato e quindi bisognerà usare i fondi di aiuto erogati da Fmi e Unione europea.
Ma per la Cina non si tratta solo di evitare il fallimento di uno Paese che importa merce made in China (nel 2009, il valore delle esportazioni cinesi nel Paese ellenico era di oltre tre miliardi di euro) e che il panico paralizzi i mercati. Il sostegno ai titoli di stato è un ottimo grimaldello per ottenere accordi bilaterali e partnership industriali. La cinese Cosco, quinto terminalista mondiale per movimentazione di container già gestisce il porto del Pireo, hub fondamentale per l’approccio al mercato Ue, di cui Pechino è il maggior fornitore (nel 2007 abbiamo importato dalla Cina merci per 230 miliardi di euro). Pechino ha anche intenzione di ampliare la cooperazione nel trasporto, la logistica, tecnologie dell’informazione e nuove infrastrutture come centri commerciali e catene alberghiere.
In piccolo, si tratta dello stesso schema che tiene legata la Cina agli Stati Uniti. Fornisce la merce e poi rifinanzia il debito di chi gliela compra con investimenti diretti o acquistando i buoni del tesoro locali. Ma la questione decisiva per l’economia della Repubblica popolare è il destino dell’euro. Un crollo della moneta unica rallenterebbe il flusso di esportazioni della Cina in una Europa in profonda crisi. Ma a far tremare la dirigenza comunista è uno scenario di tipo argentino, quando i soldi fuggivano dal Paese prima del fallimento dello stato. Sarebbe disastroso per i cinesi essere invasi da denaro in fuga dall’Europa in cerca di investimenti più redditizi proprio nel momento in cui la Cina ha un bisogno disperato di evitare un esplosione dell’inflazione, visto che i rialzi del coefficiente di riserva obbligatoria per il 2010, non sembrano aver sortito gli effetti sperati.
L’economia cinese resta surriscaldata perché c’è troppo denaro in circolazione. Lo scoppio di una bolla, in settori già sovrastimati come quello immobiliare imporrebbe una brusca frenata all’economia del dragone. Un rischio mortale per il gigante asiatico. Perché la crescita economica sostenuta è l’elemento cardine per la sopravvivenza del regime.
E’ sul patto fondato sulla possibilità di migliorare la propria condizione economica tra la dirigenza del partito e milioni di cinesi in fuga dalla povertà che si regge il Paese. Un rallentamento della crescita provocherebbe un’ondata di licenziamenti. Il malcontento popolare scatenerebbe un’ondata di proteste che negli incubi dei vertici della dittatura comunista potrebbe sfociare in una seconda Tienamen.