
Da De Amicis a Prezzolini. Dal Risorgimento a Caporetto (e Vittorio Veneto)

28 Ottobre 2022
Gli ideali risorgimentali da trasfondere pragmaticamente in un Regno italiano fondato sulla monarchia sabauda e la tragedia e la gloria costituite dal tracollo prima e dalla controffensiva vittoriosa poi nella Prima Guerra Mondiale possono essere ben rappresentati da due scrittori: Edmondo De Amicis e Giuseppe Prezzolini. Straordinariamente simili nelle motivazioni e nelle riflessioni.
Il libro Cuore di Edmondo De Amicis rappresenta, in particolare per coloro che sono negli …anta, il romanzo di formazione tra i più famosi e funzionali.
Purtroppo, come accaduto per altri classici quali i Promessi Sposi e Pinocchio, il fatto di essere stato una lettura quasi obbligata nel corso della formazione scolastica non ha nè contribuito alla sua completa comprensione nè, salvo eccezioni, si è potuto giovare di una rilettura “adulta” risultando confinato, per lo più, ad uggiosa reminiscenza scolastica.
In realtà ragione di riflessione quel testo ancora oggi ne offre molta. Vediamo di analizzarla.
Il libro viene scritto nell’anno 1886 e quindi in un periodo tra i più complessi della nostra storia a ridosso del Risorgimento e soprattutto dell’Italia post unitaria unificata dal Regno Sabaudo.
Il testo viene commissionato direttamente dal governo (i cui Parlamentari erano cooptati per classe e per censo tra la nobiltà di nascita o acquisita) alle prese con la gravissima situazione strutturale di un Regno formalmente unificato nella monarchia sabauda ma sostanzialmente non amalgamato nelle sue componenti originarie (basti pensare agli effetti territoriali duraturi del Reame Borbonico).
La scelta di De Amicis fortunato autore di romanzi “d’appendice” di vocazione socialista con un forte radicamento sulla realtà degli ultimi (classi subalterne ed impiegati) non fu certo unanime.
Come furono oggetto di grandi discussioni sia l’entità del compenso richiesto dall’autore sia la natura “rivoluzionaria” dell’impianto letterario.
Siamo in pieno Ottocento quando, salvo importantissime eccezioni soprattutto d’oltralpe, gli eroi o le eroine dei libri e dei romanzi sono per lo più re, regine, principi, duchi, contesse, baroni e marchesi e, ove non lo siano all’inizio del libro, attraverso un procedimento di agnizione, si verrà comunque a scoprire che sono comunque, al peggio, figli naturali dei suddetti titolati.
De Amicis, con un’intuizione folgorante, scuote la scena strutturandola dal punto di vista oggettivo in un luogo assolutamente inedito (la Scuola) e dal punto di vista soggettivo rendendo protagonisti due “eroi borghesi”: la Maestrina dalla penna rossa ed il Preside.
De Amicis ebbe lo straordinario merito di comprendere che l’elemento fondante del nuovo regno sabaudo esteso all’intera Italia avrebbe dovuto necessariamente strutturarsi nel pubblico insegnamento, nella scuola pubblica. E che i veri soldati dell’unificazione non sarebbero stati gli armigeri bensì i Maestri.
Impossibilitato ad avere un “modello ideale di italiano”, al di là da venire, De Amicis ebbe inoltre la straordinaria idea di esaltare virtù (vere o presunte) delle singole regioni componenti il regno per elevarle, con una transizione di fase più emotiva che letteraria, ad unità ideale di sintesi.
Così il Tamburino è sardo, la Vedetta è lombarda e via descrivendo per far sì che le realtà territoriali regionali non sentissero il peso della annessione militare in favore di un “orgoglio nazionale” unitario retto da vincoli di terra, sangue e diritto.
Nè manca, con spirito anticipatore, di descrivere il complesso mondo dell’emigrazione in una sorta di “globalizzazione ante litteram” dagli Appennini alle Ande.
Nonostante il titolo il libro è una straordinaria operazione di “marketing” politico perseguito con intelligenza da una classe politica cui tutto poteva venir rimproverato tranne che la cultura.
Classe politica che seppe capire l’importanza della sfera “pubblica” quale elemento di coesione e di appartenenza in superamento degli individualismi personali e locali.
Certo non si può chiedere a De Amicis di essere Marx (e non lo era) nè di essere Bakunin (e non lo era).
Ma non si può non notare, tralasciando per un momento la fotografia di una struttura sociale sostanzialmente statica, il rilievo dato alla funzione del pubblico, nella specie della scuola pubblica, alla formazione di un comune sentire che sarebbe poi diventato un sentire di patria.
Non si può non scorgere infatti in De Amicis il richiamo alla responsabilità ed al senso del dovere la nascente borghesia che sembra “incitata” da De Amicis ad assumere quel ruolo di “classe sociale” produttivo e socialmente responsabile alleato e non contrapposto alla classe operaia e degli ultimi.
Dopo il libro Cuore ci fu la grande guerra, ci fu Caporetto ma ci fu anche Vittorio Veneto. Ma ci fu soprattutto uno straordinario comune sentire.
E forse un sottile filo conduttore lega il patriottismo, un po’ ingenuo e senza malizia, di Cuore a quello che portò poi a Vittorio Veneto.
Nel famoso discorso della vittoria del Generale Diaz un passaggio, ancora oggi, risuona emblematico “…l’Esercito Italiano inferiore per uomini e mezzi…” ecco siamo stati veramente inferiori per uomini e mezzi allora come oggi. Allora vincemmo.
Ma la sconfitta di Caporetto e la vittoria di Vittorio Veneto, nell’analisi di Prezzolini, trovarono una borghesia che, contrariamente alle aspirazioni di De Amicis, non sentì il peso dei suoi doveri.
Dopo Caporetto ancorchè pubblicato nel luglio del 1919 (marzo 1920) fu scritto da Giuseppe Prezzolini nei primi giorni del novembre 1917 una settimana dopo la disfatta di Caporetto e nel 1920 pubblicò Vittorio Veneto.
Come acutamente rileva Gentile (oltre l’Italia, oltre la Nazione) nei suoi testi vi è, come in De Amicis, un intento pedagogico ed un primo, embionale, giudizio storico sull’Italia che, tradendo gli ideali del cuore di De Amicis, risultò percorsa da un distruttivo disgregamento morale repentinamente rivelato in un momento critico.
E di tale disgregamento, prima che ai comandi militari, Prezzolini attribuiva la responsabilità principale alle classi dirigenti ed alla loro incapacità di formare un popolo di cittadini consapevoli dell’esistenza di un interesse collettivo al di sopra dell’interesse individuale: “Ciò spiega il fatto, indiscutibile, che in Italia i governanti sono peggiori dei governati”.
Di lì la riflessione paradossale, forse troppo citata, che Caporetto fosse stata una vittoria e Vittorio Veneto una sconfitta.
In realtà Prezzolini ha applicato alla sua lucida lettura della guerra la profondità dello spirito risorgimentale che voleva replicare per il Paese uno slancio così potente come quello che nel Rinascimento aveva proiettato l’Italia ben al di là delle sue frontiere.
Tale riflessione critica lasciava, e qui la similitudine con De Amicis diventa rilevante, la porta alla speranza.
In De Amicis il superamento del localismo regionale, successivo all’unificazione, avrebbe dovuto essere superato in una sintesi di coeso stato unitario con funzione di progresso e di elevazione del popolo.
In Prezzolini il progresso e l’elevazione del popolo e dei popoli rende necessario il superamento di nazione inteso quale concetto di monadismo autarchico (come le singole regioni in De Amicis) in favore di una interdipendenza delle nazioni che impone la ncessità di una politica mondiale.
Sia in De Amicis che in Prezzolini non vi è (nè vi potrebbe essere) la dissoluzione del concetto di Italia come stato unitario fondato su una identità di terra, di sangue e di norme consacrate dalla trincea e dalla guerra.
Vi è invece l’evoluzione ed il superamento, in funzione di elevazione e di sicurezza della popolazione, dei localismi (regionali in De Amicis e nazionali in Prezzolini) che tengano conto delle interdipendenze.
Conclude Prezzolini “…nulla di più ridicolo oggi, e di più impossibile di una politica nazionale. L’interdipendenza delle nazioni è una delle chiare necessità che il momento imponga.
Non ci può essere che una politica mondiale”.
Purchè tutti, in primis la borghesia italiana, non siano più clamorosamente inferiori ai loro compiti.
Uniti, secondo la lezione di De Amicis, solidali ed europeisti secondo la lezione di Prezzolini.